chi sono

Sono Maria Serena, ho insegnato letteratura italiana. Oggi scrivo e sono qui per riflettere, dialogare raccontare. I miei interessi sono rivolti alla comune condizione umana, anche quella raccontata dalla letteratura. Vorrei partecipare alla costruzione di un pensiero nuovo e diverso, fondato su radici antiche, che riconosca uguaglianza e giustizia a tutti.

martedì 25 dicembre 2012

Diritto d'autore e social forum

nondum matura est, nolo acerbam sumere
(dalla favola de "La volpe e l'uva" : non è matura e non voglio coglierla acerba)

Molti si allarmano per la possibilità che quanto pubblichiamo su faceBook diventi "proprietà" di fB medesimo.
A questo punto mi chiedo se sia coerente il decidere di stare su un social network e in rete e dunque avere interesse a farsi leggere da un gran numero di persone o divulgare idee e pubblicare notizie, immagini e parole, a scambiare messaggi in tempo reale, formare gruppi di discussione, pubblicizzare blog o pubblicazioni, azioni e attività, interessi e eventuali richieste e poi dichiarare che tutto quello che pubblichiamo è solo nostro.

Insomma è giusto cercare spazio e visibilità, ma poi non volerlo condividere?

Non potrebbe essere possibile chiedere solo di essere condivisi allo stesso modo?

E’ così importante sentirsi “autori!” e rivendicare continuamente il diritto d’Autore?

Il nostro tempo ha bisogno di questo, pur rispettabile, egocentrismo?



giovedì 13 dicembre 2012

Noi, che giocavamo alle signore, a campana o a indiani e cowboy

Giglio Tigrato

Da bambini era facile: si faceva il gruppo e prima del gioco ci si assegnava i ruoli; chi voleva giocare li doveva seguire onestamente, pena l’esclusione. A me non piaceva molto giocare alle signore, ma quando si esaurivano l’interesse per la campana o i quattro cantoni e nessuno maschio iniziava una auspicabile partita di pallone o era disposto a giocare a greci e troiani (in prima media si studiava l’Iliade) non rimaneva che giocare a fare la spesa, a cucire, a cucinare.
Sì, da bambini giocavamo onestamente, con rare eccezioni subito biasimate, e ci si immedesimava nel ruolo difendendolo fino in fondo. C’era anche un altro gioco bellissimo: indiani e cowboy, e lì si correva a perdifiato tra sterpi e cantieri che costruivano le nuove case, inseguendosi e picchiandosi la mano sulle gambe per simulare le pacche destinate alla groppa del cavallo: “yuhu!”. Il bello dei giochi dei bambini di allora, vedo che oggi non si gioca più così, era proprio il darsi o ricevere un ruolo. Il ruolo era fondamentale intanto perché c’erano quelli più ambiti e prestigiosi che bisognava conquistarsi meritando la stima dei compagni, e poi perché si potevano anche scambiare, ovviamente solo patteggiando:
-     va bene, oggi Achille sei tu, ma solo per oggi, domani tocca a me.
-     però tu porti il cartone per fare lo scudo!
Insomma imparavamo la schiettezza anche dalle leggi che ci si dava da soli.
I grandi? Fuori dai piedi, eravamo bambini e ragazzini seri, e non ci sarebbe mai venuto in mente di chiedere né consiglio né soccorso ai genitori; casomai, in casi estremi si minacciava “guarda lo dico a mio fratello…”, ad avercelo un fratello, ma io non avevo che una sorella più piccola, per niente utile in questi casi.
Per farla breve, io penso che sia stato con il giocare convintamente i miei ruoli, e molto più così che col catechismo, che ho imparato ad amare l’onestà e la chiarezza.
Tanto le amo ancora che non riesco a farne a meno, e me l’aspetterei, certo ingenuamente, anche da chi fa politica e casomai mi chiede di votarlo per rappresentarmi.
Per questo quando la solita tv o i soliti giornaloni riferiscono che il presidente tizio o l’ex presidente caio o gli onorevoli semproni & sempronie danzano sulle parole dicendo e disdicendo, affermando e rettificando, tacendo per tattica o esternando per confondere le idee mi sento venire l’orticaria e la nausea.
Esempi? Come se piovesse, ma li conosciamo tutti: da un lato le esternazioni del caimano re-veniens che senza imbarazzo, (e quando mai…) canta da sirena ma ha le squame anche sulla lingua, dall’altro un segretario, candidato premier, che si adegua all’agenda montiana ma poi dice che la intende in un certo modo suo e con qualcosina in più; da altri lati ancora i silenzi dei non innocenti che, piccoli alligatori quali sono, mettono appena il muso fuori dallo stagno e aspettano che un pollo smemorato gli caschi in bocca: l’elettore per l’appunto.
Meglio, molto meglio giocare fin da piccoli ad indiani e cowboy o a Achille e Ettore. O anche alle signore. O a campana. Gente così noi ragazzini seri non l’avremmo messa nemmeno a cercare pezzi di gesso o mattone, necessari per tracciare i segni sul marciapiede disegnando lo schema del gioco.
Li avremmo forse presi a sassate, ma non li avremmo accettati, e ci sarebbe stata la speranza che avrebbero imparato, chissà, la lezione.
Adesso per loro è tardi. E forse tocca a noi cambiare ruolo. Cambiare è necessario.
Ad esempio quando uscì il film di Peter Pan avevo le trecce, e fui subito Giglio Tigrato


mercoledì 12 dicembre 2012

Il caimano ridens, il coccodrillo lacrimans e noi, le prede


Indurre la frustrazione fa parte della strategia del potere, ossia della cosiddetta casta o meglio del potere ramificato e complesso che ci può dominare, anche psicologicamente, usando i media, i nostri sentimenti, la nostra irrazionalità, il legittimo desiderio di benessere e felicità. Non a caso il caimano reveniens torna agitando, insieme alla dentiera luccicante, il vessillo di una crisi che sarebbe psicologica e superabile e con lo slogan che il fiducioso buonumore (e a quello ci penserebbe lui a botte di velinazze) tornerà ed avremo soldi da spendere.
Ma non dovremmo dimenticare di chiederci: che je frega, al caimano, del popolo dei cittadini vessati dai balzelli e dai ricatti delle spese e dei bisogni, delle famiglie normali, degli esodati, dei licenziati, dei precari, dei malati, degli emarginati?
Il caimano è un predatore, questo caimano è un predatore ridens anche se, non nascondiamocelo, c’è a chi piace.
Però esistono anche caimani austeri, probi, sobri e mesti: di quelli che, dopo averti ben ben sbocconcellato, lacrimano come il fratello maggiore, il coccodrillo.
Infatti è vero che in natura, e tra noi, ci sono i predatori e i predati, ma è bene avere chiaro che per difendersi dai predatori bisogna individuarli e capire bene chi sono, e soprattutto non illudersi che un predatore ci possa difendere da un altro suo simile. Un coccodrillo non ci difenderebbe da un caimano, e un potenziale predato si suiciderebbe se, per difendesi dal lupo, si rifugiasse presso la volpe.
Caimani a parte, noi siamo trattati, e ci siamo lasciati trattare, da anni e decenni, come polli e galline: siamo stati chiusi in gabbie mentali e sociali ed allevati per la carne e le uova. Forse anche per le scadenti piume. Ci siamo praticamente abituati al cibo della gabbia: ci hanno infatti somministrato tanto becchime mediatico e terrore dell’altro che pensiamo di non poter fare più a meno né dell’uno né dell’altro. Abbiamo un frenetico bisogno di nutrirci di due fondamentali elementi: notizie manipolate e indifferenza ed odio verso il diverso.
Per imbrogliarci meglio, inoltre, ci hanno fatto identificare il diverso con categorie precise, facendoci dimenticare che il diverso, fondamentalmente, non è tale solo per razza, religione o orientamento sessuale, ma anche perché sostiene ed elabora un pensiero non conformato, non convenzionale, libero dal condizionamenti: non da pollaio insomma. E quel cibo ora ci sembra amaro.
Ma non siamo polli e galline, anche se a volte qualcuno si comporta come tale. Siamo umani sapiens, pensanti, potenzialmente nati liberi e dobbiamo riprenderci la libertà per ritrovarne il sapore, o almeno quel margine possibile di libertà da cui ricominciare.
Soprattutto non possiamo pensare che una libertà qualsiasi ci sia data in dono da un caimano ridens o in dote da un coccodrillo lacrimans come premio per essere sfuggiti dai denti aguzzi di suo cugino.Nessuno può chiamarsi innocente se non si oppone ai predatori; per opporsi ci sono tanti modi, ad esempio anche rifiutarsi di accettare il modello sociale e di consumo dominante, smettere di non pensare, rifiutarsi di dipendere dall’attesa del becchime delle notizie manipolate.
Non è per niente facile essere non allineati, ma è necessario.

domenica 28 ottobre 2012

Noi docenti, che eravamo poveri, ma onesti



Noi insegnanti (anche se ora io sono a riposo lo sono comunque) abbiamo sempre ricevuto stipendi modesti quando non miseri; spesso tuttavia avevamo e sapevamo esprimere una dignità che potremmo definire inversamente proporzionale al reddito.
Nell’ultimo trentennio, invece, la scuola e l’università sono invece sempre caduti più in basso, tanto che comincio a pensare che ci sia stato un disegno preordinato, realizzato e voluto ad arte.
Non a caso la decadenza, innegabile, della scuola inizia proprio insieme alla scuola media obbligatoria; pare quasi che si sia pensato: “tutti studieranno? Pericolo! Allora facciamo in modo che imparino poco e male” .
Il reclutamento dei docenti è stato quello che vediamo nei fatti che ha prodotto e, come esattamente sostiene Anna Lombroso, nel suo articolo dove commenta egregiamente il ritorno di Penati al lavoro di docente, l’insegnamento è diventato occupare “un posto dove si va in mancanza di meglio, dove non si guarda troppo per il sottile”.
E’ purtroppo vero. Ho visto decadere via via la scuola e insieme ho visto ottimi insegnanti sopravvissuti e sempre più emarginati dalla corrente paludosa che tutto vorrebbe appiattire a sé.
La scelta di Penati è dunque l’ennesima riprova.
Ci mancano solo, ormai, Fiorito dirigente scolastico e Polverini all’Istruzione. Ma sarà solo una brutta conferma.

martedì 23 ottobre 2012

Protesta Insegnanti: il 18 un numero pesante


18 ORE vs art 18?

La protesta contro gli effetti della legge di stabilità sull’orario dei docenti ha fondamenti troppo seri per non essere sostenuta.
Non mancano, in rete come nei media, testimonianze e dichiarazioni motivate e del tutto condivisibili.
Ho trascorso una vita di studio e lavoro nella scuola, come studentessa prima, poi per qualche anno come ricercatrice e infine come insegnante, la conosco come le mie tasche, la amo e non vorrei né potrei non condividere tutte le ragioni della rivolta in atto.
Non posso, tuttavia, nemmeno
tacere il disagio che spesso provo quando la mia categoria, esprime il suo dissenso; e sono tentata di affermare che questa protesta non è seriamente espressa.
Si contesta, ad esempio, l'aumento di lavoro elencando le evidenti fatiche di una professione non facile, ma è anche vero che nessuno obbliga a svolgerla.
Si rileva che l'aumento delle ore è di fatto corrispondente ad una diminuzione dello stipendio, ed è vero. Ma ci accorgiamo solo adesso che il patto sociale è saltato o siamo i soliti cittadini di Insaputopoli?.
No, non sto vestendo i panni di Elsa Fornero dalla quale mi separano un abisso di denaro e privilegi e una vita di lavoro, di convinzioni etiche, politiche e culturali
Osservo tuttavia le formule della protesta e leggo: “Al liceo Talete di Roma i docenti hanno annunciato una settimana di «sciopero bianco». In classe si farà solo «didattica essenziale». A Palermo due docenti si sono rifiutati di ricoprire l'incarico di coordinatori di classe. Un precario di Ferrara ha persino stampato una serie di magliette con frasi del tipo: “Pubblica (d)istruzione” ...
Va detto che ci sono insegnanti, ne cito una per tutti, Lorenza Bonino, che si esprimono in rete con articoli di forma e sostanza qualificatissime, a testimonianza che la categoria non manca di brillanti teste pensanti e critiche.
Tuttavia verso un potere che dia alla cultura e alla cultura solo un peso marginale, tanto da affrettarsi a potarla brutalmente, ma sfiorando appena i veri sprechi, io penso che si dovrebbe reagire diversamente. In realtà si sarebbe dovuto da molto tempo andare all'attacco, usando tutte le strade possibili dell'autonomia, e sarebbe utile asciugare le lacrime e i fazzoletti e soprattutto non dimenticare che quando si chiede la solidarietà si deve anche proporre la reciprocità.
Il mondo del lavoro di chi non insegna ed esercita o svolge al altri mestieri e professioni non è sempre "migliore",anzi.
Conosco, tutti conosciamo, lavoratori soggetti a mobbing, lavoratrici e lavoratori che vivono in fabbriche inquinanti dove si muore, funzionari ed impiegati sottoposti a stress e angherie da capetti o capoccioni ignoranti ma potenti e prepotenti, giovani donne costrette a firmare dimissioni in bianco e licenziate con vari trucchi in caso di maternità. Sappiamo di tanti altri casi che ci riportano secoli indietro per tacere dell’abolizione dell’Articolo 18  diventata simbolo della abolizione, unilaterale, di tutte le garanzie del lavoro nonché dello smantellamento inesorabile e progressivo dello stato sociale.
A fronte di tutto questo è forse accaduto, per restare nel mondo della scuola, che i docenti di ruolo, per restare invece nel mondo della scuola, abbiano sostenuto e difeso efficacemente con uno sciopero serio i colleghi precari che lavorano a fianco a loro con pari doveri e nessun diritto? E guardando fuori da casa propria: non sono forse pochissime o rare le iniziative per fronteggiare il pesante pedaggio delle famiglie costrette ad acquistare libri di testo in costante aumento  e pesanti in tutti i sensi sia per il bilancio di casa, sia per le spalle dei ragazzini, sia per la qualità?
E ancora: consideriamo le decine di migliaia di concittadini esodati, i negozianti che chiudono, i cassintegrati o in mobilità, i licenziati, i precarizzati a vita, gli artigiani senza più lavoro: non hanno forse problemi insopportabili? Perché non affiancarli?
Invece si continua a vivere per diciotto ore di lezione e più insieme ai figli di queste persone che sappiamo che non possono più permettersi le spese per vacanze, le visite di studio, le attività extra e perfino la mensa scolastica.
No, la scuola non può farsi carico di tutto questo, ma può mandare forti messaggi di solidarietà, partecipare alle manifestazioni seriamente, evitare di imbozzolarsi nel suo particolare per affacciarsi al presente solo quando si toccano le 18 ore.
È vero: la scuola non può risolvere i problemi che i politici mettono sulle nostre spalle e i sindacalisti alla Bonanni e soci shiftano in leggerezza; però non può chiedere la solidarietà sociale e far pagare, ancora una volta e in altro modo, a ragazzi e famiglie penalizzandoli con scioperi bianchi ed altre consimili misure.
Non si può vestire l’abito delle vittime sacrificali lamentando le penalizzazioni che ci toccano e poi, magari, sospendere i ragazzi quando scioperano, tentano di occupare le scuole o manifestano, in altro modo, il loro profondo disagio di giovani senza futuro.
Tutto il paese, e non solo il nostro, è in recessione: solo l’unione può farci trovare risorse e motivazioni, strumenti e strategie politiche, economiche, sociali per uscirne. Se, al contrario, si affrontano i problemi particolari solo, quando e perché ci toccano personalmente, ma quando toccano agli “altri” siamo distratti allora saremo simili all’archetipo del contadino che ti spara una rosa di piombini nel sedere perché teme che gli rubi una gallina, ma guarda passare i cortei degli operai e con le loro bandiere, fa spallucce e si china sui cavoli propri a schiacciare le rughe o a scacchiolare i germogli soprannumerari.
E se ognuno pensa solo ai cavoli propri, cari prof, beh la partita è persa.

martedì 16 ottobre 2012

Lettera e cavoli al Dirigente Scolastico fautore di eccellenza

eccellenti e diversi tra loro


Oggi, senza un motivo particolare, ma sull'onda di una reazione infastidita al petulante ricorrere del concetto di eccellenza anche in ambito scolastico, e addirittura nella scuola dell'obbligo, ho scritto questa frase sul mio stato di fB :



Parlano di eccellenza a scuola come se ogni scuola fosse l'Accademia o un dottorato; ma la buona scuola non è quella che seleziona presumibili eccellenze, è quella che sa attendere ed ascoltare.

Prontamente un'amica mi risponde: 
Potresti scrivere alla nostra dirigente scolastica e spiegare questo semplicissimo concetto?

Impulsivamente allestisco la lettera che ora copio, incollo e rivolgo, visto che vanno di moda le lettere aperte, a qualunque Dirigente Scolastico sia fautore della sindrome dell'eccellenza (altrui).


Gentile Dirigente (del cavolo nero)
per caso lei pensa che istruire sia come piantar cavoli?
Benissimo: allora certamente sa che ci sono tante specie di cavoli: ad esempio il cavolo romano, quello calabrese, il siciliano, il maceratese, il cavolo cappuccio, la verza, il cavolfiore eccetera eccetera ed anche il cavolo nero alla cui specie ella forse è particolarmente affezionata.
Ella sa anche, certamente, che ogni cavolo ha il suo seme, il suo sviluppo e il suo tempo per portare a compimento il ciclo vegetativo e per dar frutto; e non ignora che a seconda della esposizione, del clima, dell'altitudine e non solo: anche in ragione della qualità del terreno e della sua fertilità ogni frutto di ciascun cavolo produce diversamente.
Probabilmente due piante di cavolo della stessa specie ... anche se allineate in file disciplinate e corrette, annaffiate e curate nello stesso identico modo raggiungono la maturazione in tempi diversi tanto che nell'orto domestico possono essere raccolti a scalare.
Se i cavoli, che sempre cavoli sono e non persone, hanno queste modeste ma complesse esigenze come può pensare che i ragazzi raggiungano la loro eccellenza tutti insieme? E come fa a pensare che esista un certo tipo di eccellenza buona per ciascuno?
O forse fraintendo ed Ella pensa che gli individui debbano essere selezionati solo in base alla velocità?
Dunque, esimio Dirigente Scolastico del Cavolo Nero non ci riduca gli innominabili a cavolini di Bruxelles e rifletta sulla parabola del cavolo. Altrimenti potrebbe alzarsi la ribellione del cavolo rosso... e allora sarebbero cavoli amari.
Rifletta esimio Dirigente, e osservi con rispetto i cavoli, tutti i cavoli pure quelli cinesi o romani, pure quelli che non abbiamo qui citato: possono essere incredibilmente belli e sorprendenti.
Con ossequi e minestre varie

Mariaserena 

Roma, 16 Ottobre 2012




martedì 9 ottobre 2012

Le onde nel cuore


















Momenti e giorni in cui
a ondate ti sommergono
parole come estenuanti
flutti intermittenti
dalla lunga risacca.

E nel cuore quell’onda si chiude,
pesante ricciolo amaro.
Tarda molto a passare
la bufera inattesa.

lunedì 1 ottobre 2012

tra shampoo e tagliata la rivoluzione può attendere?



La lavanderia di cervelli ha fatto un buon lavoro. 
Sbiancate le idee, candeggiate le passioni, siamo al grado zero di “ciò che non siamo ciò che non vogliamo”, ma noi adulti speriamo comunque.
Sento la ragazza che lava i capelli dalla mia parrucchiera (sfrattata) indignata… sai perché? Lo racconta lei:  al ristorante lei paga la tagliata 25 euro mentre sa visto che al politico del tavolo accanto la fanno pagare 2 euro.
“È tutto un magna-magna” commenta sagace. 
Già.
La ragazza è una brava lavoratrice, prende una miseria ed è precaria, ma vive con mamma e usa l’automobile per venire al lavoro, non l’autobus perché fa schifo. Si paga benzina, un po’ di look, un w/e di vacanze e… la tagliata, ma non scenderà mai in piazza. Eppure la camicia bianca da rivoluzionaria e tanti buoni motivi ce li avrebbe.
Come risveglieremo le tante giovani anime addormentate?

giovedì 20 settembre 2012

Idee per la scuola, a proposito de Il Bravo Prof

Abbiamo iniziato a rendere disponibili le sintesi delle discussioni avvenute tra gli insegnanti del network La Scuola che Funziona. Sono online. 
La prima è questa:  "Il Bravo Prof ".

A proposito di questo argomento, complesso e certamente da non considerarsi concluso, e a proposito di un'interessante riflessione di Francesco Consoli, che riguarda il tema da vicino, aggiungerei solo un pensiero collaterale. 

Fare l'insegnante significa aver scelto un lavoro difficile, spesso non supportato da elementi essenziali; si affrontano infatti un insieme di grosse difficoltà oggettive molto spesso presenti contemporaneamente. Ed è anche vero che l'inerzia non penalizza mentre l'agire, spesso, sì. 
Tuttavia questo mestiere non è un mestiere come gli altri e io non mi rassegnavo a farlo passivamente come adesso non riesco a parlarne passivamente. La vita a scuola è vita di relazione; se non ci si sente adatti è meglio non fare l'insegnante; se ci si sente adatti e ci si mette in quella prospettiva, allora la relazione è la chiave per iniziare a lavorare coi ragazzi. E forse sarebbe utile assumere la mentalità del seminatore più che quella del costruttore o del manager. Preparo, rifletto, lavoro, rifletto, semino, attendo: verifico me stesso e il mio risultato: ma so, devo sapere, che non dipende solo da me.

io la penso così


domenica 16 settembre 2012

Parole per nascere



Parole io vorrei, luminescenti
per scriverle nel buio della  stanza
mentre all’attesa, tra la veglia e il sonno,
il mio pensiero, infine, s’abbandona.                            

Essere non vorrei mentre io scrivo
in debito alla mente razionale
e nemmeno rileggere a formare
catene di parole riordinate.

Sospesa, scriverei per ricordare
momenti incoerenti in cui, nascendo,
senza ancora il respiro nella gola,
ebbi la voce pronta, al riso e al pianto.

Quel distacco mi pesa più di allora
né ritornare chiedo ma che solo,
solo il ricordo, viva lentamente
in un segno che sia luminescente.

giovedì 13 settembre 2012

Amo Pinocchio




Amo Pinocchio perché impara divertendosi e sbagliando; proviamo a chiederci a cosa serve imparare.
Proviamo a pensare se mentre apprendiamo, o mentre apprendevamo da bambini avevamo una motivazione se non gioiosa almeno gratificante e se quella gratificazione fosse sincera, spontanea, naturale o se fosse già un pesante condizionamento.

IL MANIFESTO DI PINOCCHIO 

mercoledì 12 settembre 2012

A scuola, con le mani alzate, per imparare!


Per vedere e capire il nuovo occorre sporgersi dalla finestra, ma bisogna prima aprirla e mettere in moto una circolazione ventosa di idee interne/esterne.
D'altronde si sa, la scuola non è impresa da pantofolai.

Coraggio ragazzini, le mani si alzano anche per chiedere, non solo per rispondere.
Alzate le mani, dunque! Alzatele sempre.





Alzarsi dalla sedia
e aprire le finestre
fare scoccar la freccia
non guardare il bersaglio
accendere la miccia
aspettare il ritorno
di quelle mani alzate     
che dicano "Lo so!"
ed indicare al volo
che c'è un'altra visione
ed un'altra possibile
futura soluzione...





giovedì 2 agosto 2012

Il Simplicissimus: Tornano le false vacanze: i cortili dei vergognosi

Quali vacanze fanno molti dei  nostri ragazzi?
A me risulta che in parecchie famiglie si è detto no anche alla spesa della gita scolastica. E trovo conferma alla situazione anche in questo bellissimo articolo di Anna Lombroso, da leggere interamente su Il Simplicissimus

"Il Simplicissimus: Tornano le false vacanze: i cortili dei vergognosi: C’è un bizzarro spostamento in là dei confini e dei limiti del senso comune se ci si vergogna della povertà più che degli abusi, delle licenze alle regole, della trasgressione delle leggi, della dignità che ci si è fatti strappare, delle umiliazioni sopportate. Se si ha pudore delle restrizioni che ci vengono imposte più che dell’accondiscendenza a subirle.

giovedì 19 luglio 2012

E lei chi è, prof ? Una storia di primo giorno scuola


dall' Antologia - Storie di didattica

http://www.storiedididattica.it/index.php/descrizione-del-progetto









partiti in 33 in terza, i superstiti in quinta
la storia

E lei chi è, prof ? 2
Primo giorno di scuola. Siamo in un Istituto Tecnico per Informatici. Entro nell’aula, densamente abitata da trentatre alunni maschi, saluto guardandoli e dico che sono l’insegnante di lettere che li seguirà nel triennio. Chiedo ai ragazzi della nuova classe se vogliono farmi qualche domanda. Ne ho ascoltate molte nella mia lunga storia di prof e non mi sorprendo facilmente,
Negli anni ’80 mi chiedevano: quanti compiti in classe, interrogazioni e giustificazioni? li avrei costretti a leggere libri?
Dai primi anni ‘90: larga o stretta di voti? durante le interrogazioni potevano tenere il libro aperto davanti ?
E’ stata poi la volta di questioni più personali: il voto di laurea? e quello delle elezioni politiche?
Negli ultimi tempi mi hanno chiesto se fossi contraria proprio a tutte le sostanze e le droghe, fumo compreso, perché la scuola non si occupi di educazione sessuale e se li avrei portati in gita. Anche le domande esternano le tendenze giovanili in passato taciute? Forse sì.
Oggi è, dunque, di nuovo primo giorno di lezioni: li guardo, mi guardano ed attendo. Intanto mi chiedo: come sarà questa classe?
L’impegno e la fatica dell’anno che inizia, infatti,  dipenderà in gran parte proprio dalla situazione della classe che costituisce, e non solo nella mia scuola, il primo punto dell’ordine del giorno nei verbali dei Consigli che ci attendono.
Mentre li guardo penso a quello che ci diciamo spesso con Gabriella, la mia collega di Matematica. Prima di parlare di programma da svolgere dobbiamo capire chi sono. E non è sufficiente vederli nel comportamento che tengono a scuola e decidere se attualmente “sono/non sono finalmente scolarizzati”.
Certo, se andassi in Segreteria Alunni potrei consultare le loro schede e ripercorrere il loro curriculum scolastico dalla primaria ad fino ora. L’ho fatto a volte, ma le schede personali dell’alunno hanno raccontato ciò che la scuola ha voluto vedere o è riuscita a capire degli attuali adolescenti durante un percorso finalizzato all’imprescindibile giudizio, della valutazione.
I ragazzi che ora mi stanno guardando non sono solo degli scolari, e nemmeno sono nati con lo zaino sulle spalle. Vivono in un contesto complesso: in famiglia, per strada, sugli autobus o la metro, nei loro gruppi o compagnie di muretto, discoteca, baretto, palestra, e così via. Sono ancora adolescenti, a volte con fin troppe esperienze già provate.
Come si relazionano, fuori da quest’aula, con gli adulti? Come si mostrano in tutti quei luoghi e situazioni dove è così facile sentir dire “ma cosa gli insegnano a scuola?”

Molti pensieri mi stanno attraversando la mente quando, finalmente, arrivano le loro prime domande:

-Per che squadra tifa? per la Roma? e le vede le partite?
Sono davvero spiazzata, ma  è sceso un silenzio sospeso che mi affretto a colmare.
-Sì, vedo qualche partita e il calcio mi piace pur non essendo tifosa.
(Mi sento ridicola a rispondere così, con i miei gerundi e la sintassi da prof di lettere, ma non voglio cedere).
- Ma non fa il tifo? E che si guarda?
Un po’ a disagio rispondo :
- Beh a volte guardo gli incontri internazionali…-


Dire la verità è sempre meglio; loro mi fissano scettici ed hanno un po’ ragione. Il calcio, per loro, è la Roma.
Avrei dovuto, entrando nell’aula, non solo guardarli, ma vederli meglio. Le sciarpe giallorosse al collo (nel sole ancora estivo di un primo settembre romano), gli zaini e anche i caschi, i diari, le scarpe, costellati di lupe e sigle disegnate con i pennarelli: tutti genotipi prodotti dalla curva e dal tifo.
Perché non ci ho pensato e non ho aperto io il dialogo su quel tema a loro così congeniale?
Salutandoli sorridendo avrei potuto dire: “Niente laziali qui dentro, vero?” o qualcosa del genere, e sarei andata liscia.
Ora devo ricucire, e non mi interessano le frasi che direbbero i colleghi e le colleghe autorevoli, quelli ascoltati in presidenza: “Non dargli spago! L’insegnante non è un amico, non deve dare confidenza! Se gli dai un dito ti prendono il braccio.”
Faccio l’appello, man mano li chiamo ed iniziamo a parlare; l’ora passa veloce mentre scopriamo, reciprocamente non senza prudenza, le nostre carte.
Suona la campana; scattano via dai banchi come molle e si riversano a valanga nel corridoio. Uscendo, M. alza il coro (come dicono loro):
"Nel cervello soltanto la Roma!", eccitati gli altri si uniscono con toni gutturali ed altissimi, "Il mio cuore batte per te/ per il mondo seguendo la Roma/ nessun mai t’amerà più di me".
Il corridoio risuona di canti dalle parole ingenue, urlate con foga primitiva. Ragazzi. Come non riflettere su una loro passione così assoluta? L’apparenza restituisce un’immagine di giovani trincerati in una fede senza religione, un credo senza ideologia per cui contano solo il rito e il gesto che, non compreso, appare brutale e istintivo. Il tifo è la Roma che non si discute; in seguito me ne racconteranno: vanno allo stadio tutti insieme, ma quasi non vedono la partita; passano il tempo a urlare, cantare, a lanciare slogan, a svolgere gli striscioni, a fumare. A volte le provocazioni, gli scontri, qualche manganellata sulla schiena.
Il tifo calcistico: aggregatore di passioni che li spinge a scavalcare le reti di recinzione per conquistare un posto in curva.
No, non è sbagliato chiedersi dei perché.

E’ il cambio dell’ora: le prof-colleghe delle classi adiacenti sciamano, verso le loro classi. Mi sembra che abbiano espressioni po’ ostili, sono costrette a passare accanto ai miei studenti, il corridoio ne è invaso, ma si affrettano e li evitano accelerando il passo: le braccia strette intorno al corpo fasciato dal tailleur ancora estivo, la collana di corallo legato in oro, lo sguardo accigliato, la bocca serrata.
Ah, il linguaggio del corpo (insegnante).
Il gruppo non diventa branco né gregge, ma si apre mentre loro ridono strafottenti quasi invitando le insegnanti che passano al confronto dispettoso anche se infantile.
Il gridare insieme, che a tanti riti sociali appartiene, qui stabilisce il contatto; il gesto, il canto, gli slogan comuni concretizzano e concludono una esigenza fisica di marcare la presenza, di segnare l’identità di occupare un spazio, la scuola, che appartiene soprattutto a loro e sul quale vorrebbero imporre o almeno negoziare le regole.
Non mi sembrano animati da un’intenzione aggressiva; giocano un gioco ruvido e disinibito, sfrenato e chiassoso: irregolare rispetto alle normali usanze imposte dalle istituzioni. Una sfida alla disciplina, tradizionalmente intesa, non compresa né accettata. Ha ragione Gabriella; dobbiamo conoscerli.

Eccoli dunque, ora sono i miei ragazzi: età sedici anni e per almeno dieci la scuola si è variamente interessata a loro intrattenendoli, classificandoli, scrivendone le schede, valutandoli, a volte annoiandoli, selezionando i più dotati, ma solo di rado riuscendo ad emozionarli.
Cercherò di prendermene cura, il primo passo sarà capirci dialogando piuttosto che somministrandogli un test d’ingresso. Loro mi hanno chiesto, sia con domande esplicite sia studiando le mie reazioni alla loro performance “ma lei, che si presenta qui nel territorio della nostra classe, che ci metterà voti, che ci assegnerà compiti e ci darà regole, lei chi è prof?
Domanda legittima, no?

lunedì 25 giugno 2012

SCUOLA E MERITOCRAZIA: per CRESCERE INSIEME O CRESCERE CONTRO?


Se il merito fosse uno strumento per motivare allo studio allora la meritocrazia in didattica dovrebbe essere obbligatoria.
Ma siccome per convincere un ragazzo a studiare non basta promettergli che sarà insignito di medaglie (metaforiche) e buoni voti allora la meritocrazia a scuola diventa escludente e quindi sia per gli effetti sulla formazione, sia per utilità ed efficacia didattica, sia per una questione di eticità sociale ha già fallito, fallisce e fallirà.

Chi è il destinatario dell’azione degli insegnanti? Se la scuola fosse un'istituzione per i ragazzi tutti buoni e bravi, interessati e studiosi, che amano lo studio e la maestra o il prof allora la meritocrazia sarebbe un incentivo alla gara tra bravi; ma nei fatti non è così. Invece anche per sullodati (buoni, bravi, ecc ecc) la scuola è fase ed esperienza  di crescita umana, sociale, culturale in cui confrontarsi con gli altri: infatti i ragazzi devono crescere insieme, e non crescere contro. 
Per questo servono bravi insegnanti, non giudici di gara, né capi ufficio. 


domenica 24 giugno 2012

Meritocrazia o Manifesto degli insegnanti?


 Con l’enfatizzazione della meritocrazia, imposta da Profumo, la scuola è di fronte a qualcosa di più di una sfida, è di fronte al confronto con vincoli imposti e che incidono anche sui criteri di valutazione, ma soprattutto determinano un  mutamento radicale dei suoi obbiettivi educativi.
Infatti sollecitando gli insegnanti ad adottare criteri meritocratici si va a modificare le finalità stesse dell’educazione tra le quali non vi è il misurare il merito ed attribuirgli un potere, ma lo stimolare e far crescere quelle doti che, in un tempo successivo a quello scolastico, possono costituire alcuni degli elementi che compongono il merito del singolo.
Le conseguenze ricadono anche sul profilo professionale dell’insegnante che, a questo punto, dovrebbe riappropriarsi, discutere e riaffermare la propria specificità diversa, specie nella fascia scolastica 0-18, dalle logiche delle strutture produttive del mondo del lavoro.
Dunque "M" come meritocrazia? 
Anche no. "M" come Manifesto degli insegnanti.

venerdì 22 giugno 2012

MERITOCRAZIA, POTERE E IPOCRISIA


"la profonda ipocrisia di tanti argomenti meritocratici mi fa soffrire troppo" 

ad rivum eundem lups et agnus venerant siti compulsi
Non inibiamo la sete di sapere, innata in tutti

La condivido interamente. 

Parliamo di meritocrazia. Se ne parla molto nel mondo della scuola in generale. E non sempre si tien conto nemmeno dei vari e diversi livelli dell’istruzione. Purtroppo spesso anche le famiglie sposano l’idea: un figlio campione, meritevole, bravissimo anzi eccellente. Lo vogliono così. Perché?

E' come se, da insegnanti, ci si fosse messi a giocare al piccolo Machiavelli della didattica
E non si ragiona partendo dai nostri ragazzi e dai loro bisogni, ma da quello che il comune percepire pilotato ci porta a considerare come buon risultato, o, peggio il successo.

E come si misura il successo? In base all'adattamento al conformismo, al politicamente corretto, all'equidistanza, all'appartenenza, alla cordata giusta e a tante altre ipocrisie che condizionano anche chi, essendo docente, se ne dovrebbe vaccinare da piccino.
Il merito della discussione che Gianni ha suscitato è, a mio avviso, paragonabile a quello che Foscolo attribuisce al Machiavelli (GM, non t'allargare troppo, è solo un esempio che funziona! :)) ; ho detto tante volte, e sono di parte ma non mi interessano gli apprezzamenti negativo o positivi, che si impara più dai grandi scrittori e poeti che non da solenni pedagoghi (tanto meno da solenni predicatori)
Foscolo disse che Machiavelli 
"temprando lo scettro a’ regnatori
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;"

Meditate gente, meditate. La Meritocrazia è potere. E questa discussione, con tutte le sue pieghe, arricciature e scollature, dimostra come quando si parla di potere se ne svela il meccanismo. Come?
A) chi è favorevole alla meritocrazia si affanna a trovarne i pregi (ma alla prova dei fatti ne emergono i  lati asociali, competitivi, escludenti)
B) chi ne è contrario gioca sulle differenze tra una meritocrazia buona e una cattiva... ma per farlo dovrebbe ripartire dalle fondamenta dei principi dell'educazione e i suoi scopi
C) chi entra nel merito fa esempi: e allora andiamo a vedere cosa ha prodotto questa vincente meritocrazia, come è stata attuata, chi ha incluso e chi ha escluso, chi ha davvero educato e chi si è perso
D) chi ha a cuore l'educazione si chiede: quanto devo condividere del sistema a cui mi sono affidato? O meglio: sono entrato in un sistema statale, sono parte di uno stato, il patto economico che ho fatto con lo stato mi chiede prestazioni in cambio di stipendio, la stessa cosa mi chiedono gli altri concittadini dello stesso stato-sistema. Ho bisogno di questo stipendio. I genitori mi affidano i figli perchè io sono funzionario di questo stato.... e allora che faccio? Sputo tre volte nel piatto e poi ci mangio o lavo il piatto e ci metto qualcosa di digeribile per me e i miei ragazzi?
Ma sposare la causa meritocratica, perdonatemi la metafora noir, insanguina le nostre menti. E anche  io non posso che provare irritazione per il potere che logora chi lo serve, ma non chi lo cavalca.
A cuore aperto vi saluto

giovedì 21 giugno 2012

L'EDUCAZIONE è UNA STREGA? Mariaserena pensa che forse sì.


Premessa: questo è un testo lungo per essere un post; ma non ho scelta. Si tratta di dire cose che non sempre possono essere lanciate come uno slogan
disegno di Nadagemini,
un mio ex-alunno da cui ho imparato

Ho compiuto una lunga carriera di insegnante e nonostante vi sia approdata per caso l’ho vissuta con entusiasmo sentendomi utile, mettendomi in discussione e cercando di imparare.
Mi sento tanto diversa dagli attuali insegnanti che discutono, protestano, sciorinano le loro convinzioni a cui sono tanto affezionati; non sono migliore, sono diversa, aliena come se venissi da una galassia estranea al sistema solare attorno a cui loro vanno galleggiando, tutto sommato, senza disagio profondo. Paradossalmente li sento arcaici, lenti, addormentati. Li sento vecchi: io vecchia prof sento più vecchi i quarantenni, i trentacinquenni (per tacere degli altri).
Disinvoltamente, secondo me, discutono di merito e il demerito, di buono e  non buono, impegno e il disimpegno, e perfino di intelligenza e non intelligenza: per me discutono di taralli e tarocchi pedagogici. I presupposti sono tali per cui quelle discussioni nascono sterili. Lo voglio scrivere e lo sto scrivendo in questo spazio mio.
Non contesto l’utilità delle discussioni: ne contesto il palco, la scena, l’azione, la partitura. Ne contesto la barricata, la strategia. E credo sia un diritto contestare.
Nel merito del merito potremmo citare cento esempi di geni adulti che sono stati somari a scuola: ma a che serve?
La scuola è interazione, se non funziona non è per demerito di uno solo.
Ma perché te lo dico?
Perché ho scritto dieci anni or sono, in piena attività; un testo da cui non torno indietro. Adesso ho troppi anni addosso per affrontare una classe "a modo mio", ossia con la tenerezza e la violenza necessarie ad entrargli dentro il cuore e  la mente per capire e farmi capire.
Ma la persona che scrisse questa risposta alla lettera di James Hillman agli insegnanti italiani è ancora qui che pesta la sua tastiera: sono io.
Risposi a modo mio, senza sapere niente di particolare di quel signor Hillman di cui ora ho qualche libro. Mi sarei dovuta documentare?
Ma perchè? Lui scrisse, e io, come ci fu chiesto, risposi. Lui si era forse documentato su me e sui docenti italiani? Ne dubito. Quindi siamo pari; ma quella sua lettera mi è piaciuta tanto e mi è piaciuto rispondergli. Ecco qui il testo. E se leggete il Manifesto degli insegnanti vi accorgerete che il suo dna ne è stato, e non poco, contaminato nonostante sia difficile pensare che se ne converrà facilmente :) 



Risposta al professor James Hillman

Gentile James Hillman,
ho d’impulso deciso di risponderle perché l’impatto con i suoi pensieri, le sue riflessioni e le sue analisi ha prodotto su di me, nello stesso tempo, l’effetto del pungolo e del balsamo.
Insegno, che parola impegnativa... Italiano e Storia a ragazzi tra i sedici e i diciotto anni; la mia non potrà dunque essere un’analisi scientifica ma, al più, una riflessione empirica e forse generica. Detto per inciso mi ha incuriosito e divertito l’aderire alla “gara” (le tre migliori risposte addirittura premiate!) che mi è sembrata, in un certo qual modo, coerente alla ricerca di Hansel e Gretel nel bosco. Spero che nel lasciarsi tentare dalle delizie dei premi promessi non capiti, anche ai concorrenti, di essere catturati dalla strega!
Colgo l’occasione per immaginare di tornare alunna, di svolgere il compito e di prendere, ancora una volta, parte ad un gioco del quale ora conosco un po’ meglio le regole, ma da cui altrimenti sarei esclusa perché fuori tempo massimo. Ritorno con la mente nelle aule dove la scuola era sottomissione, dove ero costretta a dimostrare qualcosa, magari inventando e fingendo, china sul banco e sui fogli bianchi così ostili ai miei pensieri e sento ancora il freddo dell’ansia e l’odore dell’inchiostro sulle dita macchiate.
Gentile professor Hillman, parto da una considerazione che mi sembra realistica anche se ovvia: quando i nostri ragazzi approdano alla scuola l’Educazione, di cui lei parla, ha già operato in modo massiccio su di loro (questo ancora di più per le Superiori).  Vale la pena di puntare l’indice contro qualcuno? Non solo la famiglia, ma l’ambiente sociale, i media, gli sport praticati, le associazioni frequentate, il quartiere, la strada e così via influenzano e condizionano i bambini e le bambine (fin da piccolissimi) e gli adolescenti.
Stimoli e modelli in alcuni casi positivi, ma non solo, li avvolgono, li attraggono, stampando un’impronta, una sorta di “uniformità” che probabilmente ha effetti più dominanti su quanti crescono in ambienti, per diversi aspetti, meno illuminati, meno evoluti o colti.
Una volta a scuola avranno la ventura di, finalmente, incontrare un insegnante disposto a confrontarsi con la loro molteplicità, che ne riconosca l’irripetibile individualità, valorizzi e  faccia uscir fuori l’individualità dei pensieri, dei sentimenti, delle passioni, del carattere?  Qualcuno restituirà, come giustizia vorrebbe, un’opportunità di crescita e indicherà loro, democraticamente, la strada per scoprire se stessi?
Noi abbiamo queste responsabilità. Oppure è giustificabile limitarsi a denunciare senza reagire e senza fornire qualche strumento? Pur essendo noi stessi immersi e pressati dalla quotidiana uniformità della massificazione non dovremmo rifiutarci di esserne omologati?
Tuttavia: quanta fermezza per accettare questa sfida, quanta convinzione umanistica, quanta disponibilità a mettersi in gioco deve possedere chi accetti l’evidenza (tale a me sembra) delle molteplicità delle intelligenze, delle immaginazioni, dei sentimenti delle persone-studenti? E come può riuscire a far convivere gli obiettivi formativi del sistema scolastico con il far camminare l’insegnare e l’imparare, come Hansel e Gretel, nella varietà del bosco e dei loro pensieri?
Qualche indispensabile margine di libertà va dunque affermato e difeso nella pratica dell’insegnare/imparare, perché se invece fosse inevitabile il sottomettersi alle regole volute dall’esercito di amministratori, esperti e specialisti si dovrebbe senza indugi consigliare affettuosamente ad Hansel e Gretel non la via del bosco, ma quella della clandestinità.
L’Educazione può davvero togliere il respiro e l’anima all’insegnare e all’imparare  quando  i sistemi educativi non prevedono e sopprimono le emozioni.
Eppure è la storia a dimostrare come, più di quanto non lo facciamo noi insegnanti, siano gli studenti  a resistere e, penso, con ottime ragioni.
Non ho conosciuto studenti che rifiutassero il confronto e il dialogo (il che non esclude, come per ogni forma di comunicazione la possibilità di fraintendimenti o errori) anzi di solito hanno verso il rapporto con l’insegnante un’attrazione e una curiosità istintiva.
Questa istintività li guida a riconoscere e distinguere senza sbagliare il fratello con cui attraversare, “l’uno per l’altro”, l’uno con l’altro, il bosco; il complice con cui percorrere un itinerario dell’anima e della mente intuendo di non doversi difendere dall’altro, ma di doversi guardare, insieme,  dalla strega.
Lo stesso istinto fa riconoscere a noi insegnanti il (come negarlo?) prediletto, l’affine e questa dinamica evoca e attiva la bellezza dell’insegnare/apprendere. A me sembra che questo legame non tolga nulla agli altri, anzi acuisca ed aumenti la profondità del dialogo, renda più facile allargarlo e distribuirlo, più interessante, anche per gli altri, parteciparvi.

Si è diffusa, per cattiva sorte, una recente categoria di studenti veramente “difficili”: ragazzi precocemente, artificialmente, invecchiati che arrivano a scuola, anche per le ragioni suddette, con una mentalità già rigida e conservatrice nel senso peggiore cui si abbarbicano tenacemente; credono di sapere già tutto su come vanno il mondo, la società, la politica e ritengono di poter pretendere un tipo di insegnamento acritico e preconfezionato, ingurgitano passivi nozioni mnemoniche tratte da porzioni di libri e… presentano il conto per ottenere un voto. Quando, come e per colpa di chi è potuto accadere che il loro animale ed istintivo voler imparare sia stato radicalmente modificato? E come abbassare la loro ottusa difesa e tentare di convincerli al dialogo se non travolgendoli affettivamente? I risultati potrebbero richiedere anni di lavoro ma, come ha detto la mamma illuminata, di un mio studente, Tito, gli insegnanti sono “seminatori”...
La tendenza del sistema educativo sembra invece tenere poco conto di ciò, preferendo incoraggiare la sistematizzazione. “Progetti didattici”, “educativi”, “gestionali” si diffondono oggi nella nostra scuola italiana come infestandola; si potrebbe sensatamente obbiettare che non si può lavorare alla cieca e che non ci si può muovere senza scegliere direzioni, strategie, metodi, obbiettivi…Tutto vero, ma chi beneficerà  davvero di queste scelte? Mi chiedo se il bisogno reciproco di insegnare/imparare, non contaminato da interessi economici o da tattiche di carriera, resisterà alle strategie didattiche dell’Educazione.
Le istituzioni sono necessarie perché non possiamo fare a meno di strutture,  luoghi deputati,  amministratori e così via; forse non possiamo rinunciare nemmeno alla piazza, al mercato. Come è vero che non possiamo vivere senza aria, ma non potremmo nemmeno respirarla se fosse soffiata compressa a forza nei polmoni perché anche il cuore cederebbe; come non possiamo vivere senza acqua, ma essa ci può anche travolgere, schiacciare, affogare.
Talvolta, guardandomi intorno, ascoltando i discorsi dei colleghi (nelle riunioni, nei corridoi, nelle aule) mi sembra di percepire davvero che l’Educazione e i dogmi educativi ci vogliano imprigionare nella casa della strega e costringere a prostituirci, ma che, ahimè,  non per tutti questo sia davvero un problema.
Se lo volessimo forse sapremmo almeno cercare una via d’uscita (non dovrebbe essere impossibile a chi si nutra di studi).
E gli studenti? I più intelligenti e vitali non hanno perso la voglia di sognare e di ribellarsi all’Educazione e rivendicano la dignità della loro protesta. E’ indispensabile ed essenziale ascoltarli e rispettare la loro resistenza all’imparare; da essa nascono idee, sentimenti, passioni, esperienze: i giochi della vita e del futuro. Le loro diversificate e molteplici, impetuose e violente ribellioni sono inoltre generose e prive di calcolo e, anche se possono apparire  sproporzionate e contraddittorie, sono stimoli vitali per noi.
Non ho conosciuto studenti indifferenti al dialogo con l’insegnante che si occupi di loro.
Conosco invece insegnanti che non si occupano dei loro studenti, ma li giudicano.
Conosco e ricordo, inoltre, personificazioni di Educazione del tutto insopportabili tanto per me (insegnante), quanto per loro (studenti).
Conosco e ricordo tanti educatori presuntuosi che, nella loro serissima professionalità, pur non avendo mai sperimentato il senso vocazionale dell’insegnamento e vivendo con infelicità e frustrazioni il loro ruolo, si ostinano a non scegliere un altro lavoro.
Gentile prof. Hillman, conosco anche bravi insegnanti, poco propensi a “sottomettersi senza protestare ai dogmi educativi” come lei scrive; la loro bravura è di solito il risultato di una ricerca individuale per nulla gratificata, poco incoraggiata, quando non ignorata dalle istituzioni; ma continuo a pensare che la nostra attività richieda comunque capacità e volontà di fare, quando necessario,  scelte autonome e personali.
E termino esprimendo una forse incongrua speranza (o un pio desiderio): che il mettersi in gioco, l’imprudenza e il rischio che sottendono ad ogni iniziativa volta alla comune scoperta di quello che il bosco di Hansel e Gretel nasconde, continuino ad attirarmi; perché non mi accada, ancora per un po’, di provare la miserevole amarezza di non trovare più nessuno che voglia ciò che posso insegnargli e di non riuscire a capire perché. Un saluto affettuoso

                                               M. Serena Peterlin


Roma, 16 Dicembre 2002