chi sono

Sono Maria Serena, ho insegnato letteratura italiana. Oggi scrivo e sono qui per riflettere, dialogare raccontare. I miei interessi sono rivolti alla comune condizione umana, anche quella raccontata dalla letteratura. Vorrei partecipare alla costruzione di un pensiero nuovo e diverso, fondato su radici antiche, che riconosca uguaglianza e giustizia a tutti.

lunedì 30 settembre 2013

Lettera aperta DI / A una professoressa sulla poesia

Scrivo questa lettera rivolgendomi ad una mia amica e collega, Anna Maria Curci, ma essendo una lettera aperta queste riflessioni sono rivolte a tutti.


Cara Anna Maria,
ti scrivo per parlarti di poesia perché entrambe, insieme a tanti altri insegnanti, non solo la amiamo, ma cerchiamo da sempre, senza violenza né pratiche di didattica estrema di trasmetterne l’amore.
Iniziando questa lettera, sulla poesia, mi accorgo di aver usato il verbo amare e la parola amore con una frequenza che solo la poesia poteva ispirare, ma è necessario che subito, al contempo, io difenda la poesia sia dai sentimentalismi, sia dalla tracimazione degli stessi.
In realtà la poesia d’amore rischia di essere sia di quel genere innocuo, di cui hai tu parlato, sia uno sfogo banalizzante di sentimenti precocemente nati e finiti.
Ma tornando al tema: come negare che, seppure apparteniamo a generazioni un po’ diverse, entrambe siamo state formate ad un approccio rigoroso alla letteratura, che abbiamo decantato il rigore raffinandolo ulteriormente attraverso il filtro, a volte fittissimo, degli studi strutturalisti o dell’esegesi semantica e della semiotica, che abbiamo sperimentato le letture di diversi critici diversamente orientati ma siamo felicemente sopravvissute amando questa forma di scrittura che non può non essere che letteraria?
Intendiamoci, non nego la possibilità che la poesia nasca spontanea da un cuore primigenio o persino illetterato; non nego nemmeno che abbia diritto di cittadinanza nel paese della libera espressione attraverso parole anche una poesia semplice, o vogliamo dirla innocua? disimpegnata o perfino autoreferenziale.
E tuttavia come sottrarsi a quella punzonatura dell’essere docenti e di aver sentito e di sentire la responsabilità di insegnare prima di tutto la distinzione tra i generi.
E come sottrarsi all'ammissione di colpevolezza: sì insegno quello che amo, le mie predilezioni non le voglio nascondere e uso arte e mestiere per trasmetterle?
Eppure nemmeno noi, così oserei dire radicalmente prof, siamo nate insegnanti. E anche noi siamo nate alla poesia ascoltandola,leggendola, lasciandoci trascinare dalla sua musica. Mi accorgo che scrivo noi,forse devo dir io? Ma sorvoliamo come si sorvola su un dettaglio.
Ho amato la poesia per la musica e le sensazioni che riusciva a far nascere, e ripeto a far nascere e non semplicemente a trasmettere. Ho amato (e di nuovo questo verbo!) la poesia proprio perché rappresenta  una forma ulteriore di scrittura,  che va oltre l’espressione spontanea, descrittiva, emotiva, referenziale o narrativa per andare ad una sintesi, ad un grumo di sensi e sentire, ad un coagulo di passioni e pensieri, ad un aggregarsi di cellule fatte di segni, ma che diventano vita e rigenerano.
Compravo gli Oscar Mondadori collezionando libro su libro tutti i poeti pubblicati: alcuni ancora, per me sconosciuti. Come sai erano libri economici e senza note ma a me, studentessa, non importava di capire tutto perché avevo la sensazione che non fosse necessario l’approccio totale, immediato, esauriente; o anche potrei dire filologico.
Leggevo voracemente, tutto di seguito afferrando il testo, segnandone alcune parti, interrogandomi su altre e, pur iscritta a Lettere, senza assolutamente immaginarmi in cattedra intenta a spiegare la poesia.
Questo forse troppo lungo discorso, cara Anna Maria,non ti sgomenti; la conclusione, penso, sarà più breve delle premesse.
Si parlava di poesia innocua, di quella di cui son pieni blog e social network, giornali_ni e anche inspiegabili premi letterari.
Da convinta democratica a tutto tondo non nego il diritto di esprimersi anche andando a capo e chiamando poesia ciò che si scrive. Si dia pur voce al sentimento, al sentimentalismo, ai singulti, alla passione così come viene. Lo scrivere è pratica libera e tale dovrebbe rimanere. Devo ammettere che, pur con perplessità, ritengo ammissibili anche circoli (virtuali o reali) in cui ci si loda reciprocamente per le modeste o modestissime performance pubblicate soprattutto in rete complice la semplicità dell’aprire un blog. Basta girarne al largo.
Vorrei tuttavia distinguere tra una pratica di scrittura, dalle infinite gradazioni e gamme, che probabilmente è sempre esistita e di cui esistono gustose espressioni anche in opere liriche (ricordi sicuramente il tutore di Rosina, nel Barbiere rossiniano, che declama : “quando mi sei vicina/ amabile Rosina / il cuor mi brilla in petto / mi balla il minuetto”), dalla poesia.
Possiamo discutere se la poesia richieda metrica e rima, se e quanto sia importante la sperimentazione, se la sua lettura possa esser spontanea o educata, se sia vitale (io penso di no) l’apprezzamento della critica; ma possiamo anche mettere in discussione che, considerata la nostra tradizione letteraria, non solo italiana ovviamente, la poesia debba essere presa sul serio dal lettore e maneggiata con giudizio da chi si vuol attribuire il nome di poeta o poetessa?
Dico francamente che la mia democrazia finisce dove inizia l’arbitrio altrui. Il piacimento è una cosa, il piacersi è altra cosa.
Credo anche che se tanti autori si sono imposti la ricerca del suono attraverso la metrica e la rima sia necessario considerare l’arte poetica anche come una disciplina prima di tutto verso se stessi. Penso che si possa discutere di preferenze personali; ma se noi oggi, piccoli contemporanei,possiamo permetterci in tranquillità di dire che preferiamo Dante a Petrarca o Montale ad Ungaretti, allora possiamo anche dire che una quartina dell’Angiolieri o dieci righe stralunate di Dino Campana (cito gli autori italiani che amo per obbligo  di scuderia) valgono da soli milioni di righe apparecchiate in rete per palati affamati, ma non troppo garbati.
Presunzione di aristocrazia letteraria? L’aristocrazia qui non c’entra: c’entra lo studio, la fatica, l’umiltà da cui autori grandissimi si son lasciati impregnare prima di distillare parole.
Io stessa, e questo scritto è anche il mio auto da fé, amo scrivere ma prudentemente mi considero una che scrive versi solo perché va a capo con le frasi seguendo il suo ritmo personale. E infatti sto raccogliendo le mie carabattole scritte con questo titolo. “Andando a capo”. E non pretendo lettori.
I nostri ragazzi, è a loro che noi pensiamo, amano  spontaneamente la poesia anche se spesso si proteggono dalle lezioni di letteratura con la corazza della felice e spontanea insolenza dell’adolescente  che cerca se stesso. Ebbene io penso che la amino proprio perché al di là, o  prima, delle possibile griglie di analisi del testo, percepiscono e colgono l’anima  pura della poesia. Quella che non si macchia della belletta negra, quella che può trattare qualunque argomento, quella  di cui, oggi come ieri, non possiamo fare a meno. Quella che ha raggiunto il bello stile vagliando e vagliandosi.
E per ultimo vorrei anche dire che, per quanto ci possa dispiacere questa non è un’epoca peggiore di altre, anzi. Forse molti scambiano il male di vivere con il male di non saper essere. Ma questo è tutt’altro discorso.
Come sempre scrivo di getto, come sempre ho fretta di spedire. E ti mando, insieme alle parole, le rose disegnate dal mio Francesco Maggi, Nadagemini, ovviamente ex-alunno anche se odio la particella ex.
Con affetto
Maria Serena