chi sono

Sono Maria Serena, ho insegnato letteratura italiana. Oggi scrivo e sono qui per riflettere, dialogare raccontare. I miei interessi sono rivolti alla comune condizione umana, anche quella raccontata dalla letteratura. Vorrei partecipare alla costruzione di un pensiero nuovo e diverso, fondato su radici antiche, che riconosca uguaglianza e giustizia a tutti.

domenica 20 febbraio 2011

SUPERARE LE PASSIONI TRISTI di Fermina Daza


“Io ci sono nato su questa nave. …La terra... è una nave troppo grande per me…. È una musica che non so suonare. Non scenderò dalla nave. Al massimo, posso scendere dalla mia vita.”
T.D. Lemon Novecento preferisce la certezza della morte all’incertezza della vita sulla terraferma. Una storia di “passioni tristi” in cui la sofferenza non è caratterizzata dal dolore ma dalla rinuncia ad abbandonare le proprie persuasioni indiscusse e indiscutibili.
Sono molte le persone che preferiscono morire con la propria nave. Sono molte le persone che preferiscono non affrontare il dolore di scendere ed immergersi in una vita nuova. Si tratta di un vero e proprio cambiamento qualitativo della sofferenza psichica che trova le sue ragioni non più nel dolore ma nella crisi stessa della società. Una crisi nella crisi.
E la crisi è nella mancanza di prospettive, è nel crollo della capacità di ideare, di inventare e di inventarsi, è nell’incertezza del futuro che non è più sogno nel cassetto ma vera e propria minaccia, è nella mancanza di iniziativa, è nella ricerca della più perfetta forma di pensiero di difesa.
E la crisi è in ogni individuo che riflette in solitudine, scegliendo più o meno consapevolmente di diventare agorà di se stesso e misura del suo stesso pensiero. Un pensiero che si guarda allo specchio, un pensiero che si copre con i veli dell’incertezza, un pensiero che confonde la causa con l’effetto, un pensiero orizzontale in cui la direzione è definita dalle parole e non dalle idee. Un pensiero che avverte il pericolo e decide di rimanere a bordo della sua nave. Un pensiero che al pericolo risponde non con l’attacco ma con la difesa.
E ci si difende escludendo la “promessa” e il “desiderio”, ci si difende imparando a “sopravvivere” e non a “vivere”, ci si difende eliminando la “narrazione esperenziale”, ci si difende ragionando in termini di “competenze attivabili per migliorare l’efficienza e l’efficacia della prestazione”. Ci si difende smettendo di creare.
Saremo capaci di fare un passo indietro? Saremo capaci di superare le “passioni tristi”? saremo capaci di fare in modo che le autoprofezie non si adempiano? Saremo in grado si superare il “dogma dell’immacolata osservazione” secondo cui l’unica realtà possibile è quella che io vedo e in cui io stesso sono misura delle cose?
“Non sei mai davvero fregato finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla.” (A. Baricco, Novecento)

venerdì 11 febbraio 2011

Docenti da difendere, purché attacchino - di Mariaserena Peterlin

Dire che gli insegnanti si meritino delle critiche è ben diverso dall’accettare che sia giusto togliere la stima a tutti a causa di alcuni.
Anche io penso (e mi spiegherò meglio più avanti) che la categoria dei docenti non abbia fatto abbastanza per mantenere il rispetto al proprio ruolo ed è in quest’ottica che leggo sottoscrivo la frase di Gianni Marconato : - Resta comunque il fatto che il principio di autorità regge sempre di meno, che il ruolo protegge, tutela sempre di meno e che la sua autorevolezza, l’insegnante, se la deve procurare da solo col duro lavoro sul campo.-
Potremmo anche dire che molte sono le categorie non più rispettate come “una volta”, ad esempio i medici e gli ingegneri, i politici e le madri di famiglia, il clero e le forze dell’ordine, gli artigiani e gli intellettuali e potremmo continuare; ma nemmeno tra i rapporti di condominio o degli utenti della metropolitana c’è più la vecchia e diffusa “buona  e formale educazione”.
Non generalizzo, ma confermo che è la società ad essere, e violentemente, cambiata.
Immaginare che l’insegnate sia esente da questa sorta di, mi si permetta l’espressione, incanaglimento dei rapporti sociali è illogico, ma certamente non incoraggiante.
Sono in piena sintonia con Vittoria Patti quando scrive - Neanche il genitore più arrogante ed ottuso si prenderebbe la briga di maltrattare un insegnante che il figlio stima, e di cui quindi in casa parla in modo positivo. E per guadagnare la stima degli studenti, bisogna semplicemente stimarli…- Questa è anche, da tempo, la mia tesi di fondo e vedo che anche altri amici vi si accostano.
Dobbiamo costatare che le prime critiche generiche, generalizzanti e squalificanti sono venute proprio da coloro che (MIUR, Fioroni, Gelmini, Funzionari del ministero vari) avrebbero dovuto, per principio e dovere d’ufficio, seguire la categoria dei docenti, incentivarne l’azione e l’aggiornamento. Invece l’hanno tenuta e tengono sotto scacco squalificandola.
Se è vero che il bravo e valoroso insegnante riesce a ottenere la stima dei suoi studenti, è anche vero che il suo percorso è attualmente disseminato di tagliole (prove INVALSI ad esempio).
Dai Soloni del Miur e dell’OCSE si pretende che gli studenti italiani (a partire dalla seconda elementare) siano omogeneamente valutati, allineati sulle stesse competenze, uguali e coperti dalle stesse situazioni sociali. Si pretende che, tramite il vaglio delle suddette prove, dove tuttavia il nozionismo dilaga, dimostrino di saper ragionare.
Ma la vera domanda è : sanno questi signori cosa significhi “ragionare”  per un bambino o ad un adolescente?  Sanno cosa significa il tempo educativo? Sanno che i ragazzi non maturano, come i cocomeri, tutti nello stesso periodo?
Noi insegnanti, guarda caso e fatte salve le solite malerbe, lo sappiamo e siamo consapevoli che tutto l’apparato di presunto merito e presunte eccellenza e verifiche è inattendibile, vive di una fama immeritata ed infondata e sta facendo più danni di quelli che si possono immaginare.
È tempo che gli insegnanti usino i loro specifici strumenti culturali  e professionali per cominciare a dire “nossignore” invece che “signorsì” ai dirigenti, ai funzionari, al pedagoghi mediatici e non, ai Ministri (onorevole eccellenza/cavaliere senatore come diceva Rino Gaetano) e a tanti presuntuosi opinionisti.
La categoria dei docenti è o dovrebbe essere quella che, per competenza e pratica professionale, ha titolo per esprimersi sulla realtà della situazione giovanile (argomento che angoscia molti benpensanti e non) eppure si lascia bacchettare: perché?
Perché i docenti con idee si sentono isolati o soli?
Perché troppi di loro hanno mollato il timone e si lasciano andare alla deriva?
Perché il conformismo della contrapposizione famiglia-scuola deve trionfare?
In queste condizioni, e valutato il contesto, la scuola rischia di morire collassando su se stessa.
Ripartiamo dall’affermare che siamo persone impegnate in un lavoro da cui dipende non tanto “il futuro del paese” (come si ama dire per alzare retoriche fine a se stesse) quanto la vita di ciascun giovane cittadino e, di conseguenza, la sua possibilità di essere “società civile” domani.

E’ questo il momento di contarsi, di chiamare a raccolta i docenti che condividano  contenuti qualificanti quali la conoscenza delle problematiche pedagogiche, delle pratiche didattiche ed il senso della alla missione educativa.
Occorre dire ad alta voce che nella scuola si svolge un lavoro quotidiano immerso nella realtà sociale, e che questa realtà non è omogenea (anche se nessuno sembra volersene accorgere). Tra i vari paesi a città, tra i nord e i sud, tra i livelli socio-economico-culturali, tra le diverse provenienze famigliari ed etniche, tra i nuovi italiani ci sono mille sfumature  che non si può pretendere di “valutare” come se si trattasse si automobili a confronto con automobili o pomodori a confronto con pomodori.
Di questi ragazzi assumiamo la responsabilità nella consapevolezza che ogni gesto di un docente ha un suo peso e una conseguenza.
Lo abbiamo ammesso,  ci sono i mediocri o pessimi docenti che non meritano giustificazioni, ma se  in un ambiente si lavora male il torto non è solo di chi, pur colpevolmente sbaglia , è prima di tutto dei responsabili e quindi anche a scuola non si può attribuire tutto ai docenti che spesso si sentono ormai allo sbando e al “si salvi chi può”

Ascolto e parlo con i docenti e li sento investiti da un profondo disagio,  so che alcuni sono addirittura intimoriti.
Affrontano genitori sospettosi o minacciosi che pensano solo al pupo di casa, studenti del tutto immuni da soggezione o abitudine al rispetto, dirigenti aziendalisti e indifferenti alla didattica, un ministro che non conosce la scuola, pomposi funzionari pontificanti che annunciano valutazioni del lavoro docente senza aver, dal canto loro, insegnato un giorno che sia uno.
Torniamo dunque all’esempio delle prove INVALSI; sono somministrate con indifferente livellamento (come la grandine d’agosto sui campi o sulle officine, sull’Appennino e sul mare, sulle automobili o sugli edifici) su classi distribuite tra Aosta e Lampedusa: cosa riusciranno a dimostrare?
Non rileveranno elementi utili a evidenziare le difficoltà incontrate dai ragazzi per i quali programmare e tarare il lavoro del docente, ma presumono di poter verificare se gli alunni hanno “imparato” e quanto.


Di conseguenza se un insegnante avrà in classe troppi ragazzi che non imparano, si sentirà a sua volta valutato negativamente e frustrato poiché anche la considerazione e il suo prestigio personale, e probabilmente lo stipendio e carriera, saranno direttamente proporzionali al suo insuccesso o successo.
E allora come potrebbe reagire il docente?
Se è uno in gamba o un eroe (perché ormai siamo a questo) se ne infischierà nel nome della sua missione e si sacrificherà salvando i  ragazzi, perché è su di loro che investe il suo lavoro.
Ma se non è abbastanza eroico o in gamba sacrificherà invece ragazzi meno “dotati” o con problemi e li imputerà del suo fallimento e li escluderà dalla scuola bocciandoli.
La lotteria delle valutazioni è pronta, basta solo dare inizio ad un meccanico giro di manovella ... e il danno sociale sarà enorme, incalcolabile.
L’Italia sarà sempre più povera di teste che ragionano, perché a nessuno interessa che i cittadini pensino e siano critici.
La sensazione  dunque è, purtroppo, che si vada incentivando un allevamento di consumatori obbedienti, non di cittadini.
Fermiamo il disastro. Ogni gesto virtuoso può essere  un granello che contribuisce ad inceppare questo meccanismo perverso.
Si rivendichino invece identità professionale e specifiche competenze e si unisca la categoria sui contenuti di una lotta qualificante: finiamola con le tristezze  sconcertanti del tipo “docenti in mutande” e “la scuola è morta”. Finiamola di dire “però in classe mia….”  quando anche i gatti sanno che la formazione delle classi non è il risultato dell’opera della Dea bendata…
Basta con gli slogan qualunquisti e vittimistici.
Ci vuole più coraggio e meno dipendenza dall’opinione altrui e dai media. La scuola deve essere viva. Viva la scuola. 

lunedì 7 febbraio 2011

NARRARE PER CAMBIARE


“Ogni sera, dopo che avrò finito il lavoro, dopo le riunioni e i rapporti, tu verrai qui e farai quello che devi fare”
“E cioè?”
“Raccontare una storia…. Raccontami una storia e resterai in vita”
(D. Grossman, Vedi alla voce amore)

Così Sheherazad, internato in un campo di concentramento, sopravvive a se stesso. Racconta storie per cambiare la storia, racconta storie per restituire dignità alle parole. Perché solo la forza dirompente della condivisione delle parole è in grado di produrre il cambiamento, di legare Logos e Pathos, di dare origine ad eventi epocali.

Guardarsi nello specchio per riconoscersi, per pensarsi, per sentirsi. Condividere l’autoconoscenza per legittimarla, per riconoscere l’epistemologia implicita di cui ciascuno è “portatore sano”. Un pensiero che pensa anche a se stesso, un pensiero capace di riconoscere l’implicito che esso stesso contiene, quell’implicito fatto non solo di logiche ma anche di emozioni, quell’implicito che può essere svelato dalla forza dirompente delle parole condivise, quell’implicito che, se non rivelato, finirà per possedere per sempre chi lo ospita.
Narrare emozioni per mettere fine all’anestesia protettiva che racconta di fatti e di cose e non di persone. Abbandonare il linguaggio razionale a favore di quello simbolico, scegliere la relazione piuttosto che il contenuto, vivere piuttosto che definire e circoscrivere.

Non sempre l’arida cronaca conduce alla diversa percezione della realtà. A volte è necessario ricorrere ad altro…
La Regina delle Nevi … aveva fatto entrare il ghiacciolo nel cuore di Kai, che ora era un blocco di ghiaccio… Gerda …. continuò a stringerlo a sé e pianse lacrime di gioia. E mentre piangeva, le sue lacrime calde caddero negli occhi di Kai... e sciolsero il ghiaccio del suo cuore. (H.C. Andersen)

mercoledì 2 febbraio 2011

Il Manifesto degli insegnanti - Un'avventura, una partenza, un obbiettivo - di Mariaserena Peterlin



Quando vedo apparire su Web il logo del Manifesto degli insegnanti e l’invito a firmarlo penso sempre a tutto il fervore che ha generato la nascita e l’esordio di questo documento che va alla ricerca, scopre ed afferma una identità aggiornata della professione docente.

Se è vero che c’è sempre un inizio per tutte le cose, è anche vero che è difficile separare l’inizio ufficiale di un progetto dalla sua ideazione.
E certamente, a mio avviso, il progetto-Manifesto ha rappresentato e rappresenta un’avventura non semplice e non troppo conformista.
Nel momento in cui è stato concepito facevo parte del grande Ning LSCF (La Scuola Che Funziona) una cittadella, non fortificata, di insegnanti di ogni ordine di scuola e di formatori e esperti di comunicazione, web e pratiche di apprendimento, con un nocchiero al timone e pronto non solo a consultare e decifrare le carte, ma anche a cogliere i segnali del tempo e dell’aria che tira.
L’idea del Manifesto non si può dire abbia un’identità personale, né potrebbe averla avuta ed il motivo è semplice.
Il Manifesto ha avuto dei redattori, ma i redattori senza il coro di tutti i docenti non avrebbero avuto nessun motivo per redigerlo; il coro di docenti senza alcuni progettisti o coordinatori che ne raccogliesse le voci non avrebbe avuto una sua, seppur complessa, armonia; se questi progettisti e coordinatori non fossero stati presenti nel Ning non avrebbero avuto motivo di ascoltare il coro dei docenti e, infine, se la Scuola (nel suo insieme) non fosse una istituzione che sta a cuore a tutti, compresi quelli che, presi dalla sindrome odi et amo vorrebbero raderla al suolo per ricostruirla del tutto diversa) non ci sarebbe stata LSCF.
Dunque è LSCF che ha dato il la al Manifesto e senza quel la, o input come si direbbe adesso, la nave non sarebbe salpata.Tutto è perfettibile, la scuola stessa vive una fase in cui molti operatori e famiglie si interrogano non senza sgomento sul futuro; si parla forse molto di teorie e pratiche di insegnamento e troppo poco di apprendimento e cambiamento. Il Manifesto può, tuttavia, rappresentare un traguardo, ma anche essere, con altrettanta credibilità, un punto di partenza. (Ed auguro a LSCF che lo sia, in bianco e nero o, meglio ancora, a colori...)