chi sono

Sono Maria Serena, ho insegnato letteratura italiana. Oggi scrivo e sono qui per riflettere, dialogare raccontare. I miei interessi sono rivolti alla comune condizione umana, anche quella raccontata dalla letteratura. Vorrei partecipare alla costruzione di un pensiero nuovo e diverso, fondato su radici antiche, che riconosca uguaglianza e giustizia a tutti.

giovedì 29 settembre 2011

Comma ammazza blog


Comma ammazza-blog: un post a Rete unificata #noleggebavaglio

Aderisco all’invito di valigiablu a diffondere lo stesso post come segnale di protesta contro il comma 29, il cosiddetto ammazza-blog. Pubblico dunque, come molti altri nella Rete, l’articolo di Bruno Saetta che spiega con precisione perché questa norma sia inaccettabile.
Continua a leggere … sul blog di Andreas Formiconi. Grazie.

Rory Weal: un adolescente solo al comando?

guardarsi dagli amici?
Sperare, finalmente, negli adolescenti o nutrire qualche ben giustificato dubbio su molti quarantenni? 
Lamponi o banane? Un breve post sul fenomeno del piccolo Rory qui

mercoledì 28 settembre 2011

Di chi è il valore dell'errore nella buona/cattiva scuola? di Mariaserena Peterlin

Giotto e Cimabue 

Sulla scuola e sull’insegnamento esistono questioni dibattute da talmente tanti anni che si finisce per pensare che, nonostante non siano risolte, non valga più la pena di parlarne.
Il fatto è che, nonostante riguardino da vicinissimo gli studenti, le suddette questioni non sono frutto di perplessità, riflessioni e tantomeno di tempeste del dubbio del corpo docente. Anzi. Se si trattasse dell’orario scolastico, della mancanza di gesso e cancellino (e oggi della lim) o dei turni di sorveglianza alla ricreazione troveremmo (perché non ammetterlo) appassionate discussioni ed estenuanti trattative da trascinare gementes et flentes fino al’alto soglio del Diesse.
Ma non si tratta di questioni così delicate e spinose.
In realtà trattasi di argomenti tosti e che, affrontati, costringerebbero ad ammettere che una cattedra non dovrebbe essere conquistata come un traguardo, ma come un banco di prova e che, come per gli esami, anche la prova non finisce mai.
Mi riferisco, per fare solo alcuni esempi tra i tanti possibili, a situazioni di cui troppo spesso lasciamo il carico allo studente:
a) la noia provata dagli studenti nelle lunghe ore trascorse in classe 
(cfr a questo proposito il post di Vittoria Patti "Il controcanto segreto"
b) l’incomunicabilità dei docenti che non riescono a stabilire quello che più volte ho definito il click che accende l’interesse e che legittima la ribellione degli studenti
c) l’indisponibilità del docente ad ammettere i suoi errori.

Prendiamo ad esempio il problema degli errori. E’ facile trovare buona bibliografia sulla “didattica dell’errore” o sul “valore dell’errore”. Purtroppo riguarda la valutazione o l’utilità dell’errore del discente; non il contrario.
Eppure i docenti sbagliano, e non mi riferisco solo agli errori che definirei “marginali” seppure importanti come ad esempio dimostrare qualche incertezza nella loro competenza professionale. Parlo di degli errori pesanti, quelli evidenti nel modo di rapportarsi con i ragazzi, parlo di chiusura, di pregiudizi, di insensibilità e così via: questi loro errori hanno lunghi strascichi e conseguenze durature ed indelebili. Perché non ammetterli? Parlerei anche della mancanza di attitudine alla funzione di insegnante e all’ostinazione nel non ammetterlo.
Sì certo c’è da difendere il ruolo, la figura autorevole, la funzione educativa.
Ma serve difendersi negando l’evidenza? Un buon maestro ha qualità tali per cui può anche, a volte, errare e ricominciare, ma un maestro mediocre o peggio dovrebbe far altro.
 Come ha scritto Andreas Formiconi nella sua emozionante e fondamentale “Lettera al mio professore di scienze” da leggere e rileggere tutta e conservare con cura :
“Sì, perché un maestro si ama. Capita di rado e quindi, quando capita, le reazioni non sono normali.
Io ti ho amato
[…] perché quando non conoscevi bene un argomento che ci dovevi insegnare ce lo dicevi”

Un maestro si ama perché sa amare a sua volta. Un buon maestro riconosce anche gli errori nel suo agire quotidiano e sa che non ne risponde al diesse, ma al futuro dei suoi ragazzi. E anche se oggi la tendenza è quella del ritorno ad un autoritarismo pseudo razionalistico è bene astenersi dall’indifferenza mascherata da professionalità. E la didattica dell’errore non dovrebbe esser solo quella che si dedica alla valutazione degli errori dei nostri studenti. 
Ecco perché, a mio modesto avviso, non sarebbe male sbattere l’errore sulle nostre pagine.

"I" ed "R"





Dieci anni fa così scriveva un dirigente scolastico.
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il “forum” didattico da lei voluto e organizzato sapientemente, mi ha riconciliato con la didattica vera e con lo spirito e la sostanza della scuola dell’autonomia.
Se il prossimo presidente del consiglio ha parlato delle tre “I” , internet – inglese – impresa, per la scuola del terzo millennio, lei ha risposto con la scuola delle tre “R”: ricerca - risorse umane e strumentali - Responsabilità.
Durante i novanta minuti trascorsi nella sua II B, ho potuto apprezzare che il docente ha ancora la possibilità di porsi come punto di riferimento capace di suscitare curiosità intellettuali.
Sono rientrato in ufficio con l’animo sereno dopo molti mesi di affanni e di preoccupazioni, finalmente riconciliato con la vera scuola che deve offrire opportunità a tutti e a ciascuno.
È quanto mai opportuno “ripartire” da qui con i colleghi del consiglio di classe, lasciare che le occasioni mancate si traducano in “progetti” futuri.
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Dieci anni fa così rispondeva una docente.



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Ho colto pienamente il significato delle “occasioni mancate” e a questo proposito credo che tutti noi siamo chiamati ad approfondire la riflessione sui diversi stili di insegnamento e sul contrasto stridente di questi ultimi all’interno del consiglio di classe. Credo, inoltre, che dovremmo porci ulteriori domande sugli stili di apprendimento non solo degli alunni ma anche dei docenti. Il rischio sempre in agguato è quello di proiettare i nostri bisogni sui ragazzi e di percorrere strade che appartengono solo a noi, al nostro vissuto, e non ai bisogni e al vissuto degli alunni.
Cosa dire poi degli affanni e delle preoccupazioni che a quanto pare sono fedeli compagni di viaggio? Personalmente non posso che rammaricarmi per la sua decisione di gettare la spugna. Ne posso però intuire le ragioni ed i motivi più evidenti.
Spero sinceramente che voglia ritornare sui suoi passi anche se mi rendo conto che nella vita si è spesso costretti a valutare il rapporto danno-beneficio.
Credo di aver espresso, sia pure in maniera fortemente sintetica, quanto è nella mia mente a proposito delle situazioni conflittuali, situazioni in cui la comunicazione di tipo emotivo esige la messa in gioco dell’hic et nunc.
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Ripartire dalle tre “R”?



Fermina Daza

lunedì 26 settembre 2011

Note elettriche di scuola, con aggiornamenti di Mariaserena Peterlin


L'opera è di Nadagemini, un mio (ex) studente, che ringrazio con il solito affetto
Nello scrivere penso al precedente post di Fermina Daza, autrice di questo Blog, sulla didattica ortodossa e ho in mente anche tante considerazione che abbiamo fatto insieme e che un giorno insieme, spero, scriveremo. Questo scritto, non è un tentativo di narrazione letteraria. Lo dichiaro subito in omaggio alla evidenza che altro è dire, altro è commentare, parlare di ricordi, chiosare, annotare, altro è divertirsi a ciarlare, scambiar parole ecc e altro è narrare per far opera letteraria.

Meglio non sottovalutare le parole, specialmente in campo narratologico, perché se ne potrebbe uscire fulminati.
Forse riuscirò a spiegare come e perché.
Alcune parti di questo scritto sono state prese e riviste da una mia raccolta di cose vere e di scuola che ha preso il titolo “La (mia) classe non è doc”.
Altre parti di questo scritto sono considerazioni di oggi.
Le prime sono scritte in corsivo, le altre a caratteri normali. L’ordine segue solo una mia logica di associazione mentale, e non.

3. Storie e lotte di classi
Le iscrizioni alla scuola, dopo elaborate e attente pratiche di orientamento e ri-orientamento, sono messe in atto in collaborazione con le Scuole di provenienza degli studenti.
Sull’attribuzione degli studenti alle sezioni e sulla distribuzione numero dei ragazzi iscritti si aprono spesso, tra gli insegnanti, danze e contraddanze non proprio armoniose.
Accade, infatti, che la formazione delle classi sia solo apparentemente casuale o stabilita da criteri d’equilibrio.
Pochi sono gli insegnanti che, per candido senso democratico, per stoica indifferenza alla comune sorte, o per altri indecifrabili motivi continuano ad accettare le classi così come capitano; la gran parte, invece, è costituita da più avveduti prof che si organizzano e manovrano, fin dall’estate, con la perizia degli addetti ai lavori della diplomazia mediorientale.

Ma in fondo cos’è mai una classe?

Mi è sempre piaciuta la definizione che Maria Corti ne ha dato ne “Il ballo dei sapienti” un libro che narra di scuola, non abbastanza conosciuto e di cui la scrittrice stessa sospese le stampe perché si era posta “un problema di specializzazione o invecchiamento o fossilizzazione del linguaggio, che troppo da vicino connota una realtà sociale e storica di fronte ai mutamenti rapidi del reale” Gabriella Palli Baroni Seduzione intellettuale e creatività: Maria Corti scrittore in cattedra

Maria Corti scrive: “Una classe era una classe, non trentadue ragazzi, una fitta rete di correnti alternate tesa tra trentadue ragazzi.”
Certo si può dirne anche di più, ma forse sarebbe assai più saggio non dirne altro, specialmente se ci si avventura a narrare, e prendere ad esempio la Corti, geniale autrice saggista e non solo stupenda narratrice, per limitarsi a piccole note a margine di un Consiglio di classe.
Dipende dai punti di vista.
Per alcuni una classe è un luogo (sociale, fisico ecc) in cui si passano ore di lavoro insegnando a ragazze e ragazzi aggregati per età. È anche un qualcosa da dimenticare al più presto tornando alle proprie vite quotidiane.
Ma c’è anche chi considera la situazione in modo diverso. Torniamo dunque a Maria Corti. La classe è elettricità perché la classe, innanzitutto, sono gli studenti, ossia i ragazzi.
Loro, considerati individualmente, sono persone di cui prendersi cura dialogando, ricevendo e trasmettendo input e saperi.
La classe, però, non è una semplice somma di un tot ragazzi e ragazze, ma è uno speciale mosaico attraversato (appunto) da un’elettricità scaturita da un complesso aggregarsi di alunni portatori di varianti socio-culturali e affettive.
Ma qui non si narra, qui si fanno note didascaliche e memorialistiche; perciò vado a precisare.
Alcune di queste varianti, essendo impossibile esser certi di definirle tutte, sono: la percentuale di maschi-femmine, la provenienza da scuole diverse, l’appartenenza a quartieri centrali o periferie, l’aver vissuto in realtà sociali le più diverse, la percentuale di studenti con diagnosi di difficoltà cognitive o di altro tipo e di quelli altrettanto problematici, ma dei quali le famiglie non vogliono rivelare (e possono farlo) la situazione reale.
Il mix di queste varianti genera classi tutte diverse (e diversamente elettriche). Le benevolmente cosiddette situazioni difficili, già segnalate nelle schede scolastiche fin dalle elementari (ma che non sono a disposizione di tutti) si palesano infatti come tante terminazioni nervose scoperte.
E sarebbe davvero illogico farne ricadere il peso sui nostri ragazzi.
Tutti questi elementi si combinano nell’insieme classe e possono rendere un anno scolastico vivibile o massacrante non solo al docente ma anche agli studenti medesimi.
Tra luglio e agosto la scuola è in vacanza ed appare spopolata, ma non lo è poiché spesso vi opera attivamente un esiguo e sagace team di prof, funzionali e spigliati, che organizza. Per sé va a creare  ben allevate classettine di alunnetti di buona famiglia le cui iscrizioni sono stare, fin dalle scuole di provenienza, scrupolosamente pilotate verso predeterminate sezioni. L’operazione è condotta da mani assolutamente vellutate nel pescare, dai faldoni, i nomi giusti che finiscono nell’elenco voluto.
Ma quali sono le conseguenze, sul lavoro docente e sulla vita di classe, di questo vellutato siparietto estivo?
Non esiste uno strumento che misuri scientificamente quanta maggior fatica sia affrontare, ad esempio, trentuno adolescenti sedicenni maschi portatori sani di neuroni disinibiti e ormoni arrembanti piuttosto che diciotto figli/e di famiglia, divisi in uguale numero di  maschi e femmine sussurranti come un coro da parrocchia, per di più inaspettatamente abituati a mangiare con le posate.
Tuttavia un osservatore, pur non maliziosamente meticoloso, potrebbe farsene un’idea  anche solo dando un’occhiata alle fisionomie di docenti che escono da aule diverse, e percorrono corridoi separati, al termine della mattinata scolastica.
Da un lato lo sfacelo di stremati consumatori di antispastici, di valeriane e ansiolitici, dall’altra le guancine fardate e le boccucce appena velate dal persistente baffetto di cappuccino-e-brioche, il setoso trench annodato in vita e bordato di sinuosa pelliccetta volpina o il giusto tailleur.
Dall’altro lato (i mio ad esempio) le chiome da naufragio, l’occhio sconvolto e la sopravveniente tachicardia, dall’altro il tintinnio dei braccialetti, il fruscio del passo obliquo simil felino e la frangia incollata ad onda perfino cotonata.
Ma anche gli ambienti sono diversi.
Nel loro corridoio le aule sono ben esposte e luminose,  nel nostro abbiamo gli ex-bagni riattati e l’aria opaca di afrori fronteggiati alla meglio con gli appelli all’uso di acqua e sapone (prescritti tre volte al dì) nonché al cambio di maglietta dopo l’educazione fisica. Nella sezione top regna una quiete contegnosa e borghese, ma evidentemente corroborante, nel mio corso, invece, i tumulti scoppiano disinibiti e devono essere sedati da una continua e ostinata presenza didattica: le lezioni  si avvicendano come sulle montagne russe con tanto di apnea che, minuto dopo minuto, incalza le coronarie.
Si corre da una classe all’altra cercando di prevenire gli effetti di qualche frazione di tempo inevitabilmente scoperta dal cambio d’ora. Si entra in classe con almeno cinque minuti di anticipo sulla campanella della prima ora avviandosi, veloci e in preda ad un’inutile ansia, sul pavimento di granito rosso e polveroso dei lunghi corridoi incorniciati dalle finestre di alluminio.

Ma come arginare l’elettricità? Certo non a mani nude. Occorrono forse le solite cose: esperienza, sapienza, mestiere? Sì certo, ma è necessario anche mettersi nella condizione mentale e affettiva di voler capire cosa sia quell’elettricità, come accostarla e cosa fare insieme.
Non la fermerete nemmeno con le parole.

È l’inizio dell’anno e anche i miei ragazzi festeggiano selvaggiamente il ritorno a scuola. Sono quasi tutti puntuali; agitatissimi si scelgono il banco (opzione che considerano fondamentale per l’andamento dei futuri compiti in classe e non solo).
L’aula è strapiena e ululante e rimbomba tanto che si può sentirne gli scalpitii e i barriti (dolci rumori) fin dal piano sottostante e più in là.

Chi, invece, ha congegnato ed ottenuto una buona classettina sorride (e perchè non dovrebbe?). Alcune prof sussurrano avanzando sul decolleté noir che conclude l’articolazione fasciata dal collant velatissimo color gazzella, i prof, sobriamente intellettuali, le accompagnano galanti (come negarlo) accordandosi per un caffè e forse qualche cosa in più, nel pomeriggio, perché no?

E la classe? La classe è energia ed ha bisogno di energia, la classe è anche apparenza, bisogna accenderla per riuscire a veder oltre. La classe è davvero elettrica e dunque può illuminarsi o spegnersi, può accumularsi o trasformarsi, può accenderti, riscaldarti o folgorarti: dipende nolto da noi.
Quanto a me la mia classe, amici miei, non era doc e non lo è mai stata.
E quando invece lo fosse stata non sarebbe, elettricamente, toccata a me.


"Tutto questo è piuttosto incredibile no? (Silvio d'Arzo - narratore) 

sabato 24 settembre 2011

LA DIDATTICA ORTODOSSA



Nuovo anno scolastico. Si inizia a duellare con la fantadidattica ovvero con la didattica ortodossa.
La fantadidattica funziona come il fantacalcio. Le squadre virtuali vengono pianificate a tavolino. Si stabilisce chi starà all’attacco, chi starà in difesa, i portieri ed anche i centrocampisti. Nella testa la formazione ideale, quella vincente. E si decidono anche i voti che verranno assegnati a ciascun giocatore. Ed ecco che è subito pronta la pagella. Bonus e malus prendono vita.
Valutazione della performance di ciascun giocatore in campo: x punti per ogni gol segnato, per ogni rigore parato o subito … per ogni espulsione, per ogni ammonizione… Elenco inesauribile…
Fatti velocemente i conti, si può passare alla tabella di conversione dei punteggi: si va per tot. E se la fantasquadra perde, suvvia, si tratta pur sempre di un gioco.
La fantadidattica si nutre di fantametodologie, di fantalibri, di fantaindicazioni, di fantacurricoli, di fantaobiettivi, di fantavalutazioni, di fantapensiero, di fantaparole per descrivere le fantapratiche da tenere care o da cestinare… Miliardi di fantaparole per dire solo del fantabuono e del fantabello. Beati i buoni artefici del fantabuono e del fantabello. Quasi tautologico. E beato il potere a cui piacciono oltremisura i buoni artefici del fantabuono e del fantabello.
La didattica del fantabuono e del fantabello per organizzare e gestire fantaclassi perfette. Ma la classe reale non è fantabuona e non è fantabella e non possiede nemmeno i fantabisogni che i buoni artefici credono di vedere.
Quando l’offerta è maggiore della domanda, l’unica risposta possibile è nella creazione di fantabisogni.
Fantadidattica all’insegna di vecchi riti di iniziazione. Decrepiti rituali, vecchi di un quarto di secolo, spacciati per brillantissime innovazioni. La fiera del vintage nei mercatini dell’usato.
Carte e protocolli ortodossi, “buoni” fino alla fine del mondo o finché piacerà al potente di turno.

Fermina Daza

mercoledì 21 settembre 2011

INSEGNARE è IMPARARE

Manifestino 2 La Scuola Ed Io

lunedì 19 settembre 2011

NUMERI E PROSCIUTTI di Fermina Daza


Collegio dei docenti.
I numeri contano, non c’è che dire. Sprofondo nei miei pensieri.
Una classe è una classe, un collegio dei docenti è un collegio dei docenti. La scuola è fatta di numeri.
Sento di aver scoperto l’acqua calda. Riflessione inutile, mi dico. Inutile per la sua ovvietà. Ma la banalità della riflessione non cancella la riflessione stessa.
Sono i numeri a raccontare le storie… Essere i numeri uno, fare due chiacchere, fare un quarantotto…dare i numeri… Ma un collegio dei docenti è un collegio dei docenti.. È necessario prestare attenzione ai numeri… Ed ecco che ancora una volta mi trovo costretta a fare i conti… a partecipare alla resa dei conti…Una costrizione insopportabile per chi è affetto da discalculia. E io lo sono da tempo immemorabile.
Ritorno in me. Vorrei guadagnare velocemente l’uscita ma l’unica via d’uscita è ripiombare nella trance catalettica.
Un numero è un numero. La realtà stessa, o quello che ne resta, è un numero. Un 3 è un 3. Un 10 è un 10. Massimo risultato col minimo sforzo. Si procede per addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione. Le possibilità combinatorie del sistema decimale superano di gran lunga quelle del sistema alfabetico. E penso, giusto per farmi del male, anche al sistema binario…
I numeri raccontano le storie. Storia chiusa.
Sento però che qualcosa mi sfugge. Tento senza successo di acciuffare un’idea peregrina, poi, senza preavviso, ecco che l’epifania si palesa.
La scuola è fatta di numeri, io stessa sono un numero, il risultato di un’azione combinatoria. Elenco di alunni, elenco di docenti. Nessuna classe sfugge all’immatricolazione. Classe di alunni. Classe di docenti.
Ritorno faticosamente in me.
Distribuzione di incarichi. La solita questione di numeri, perché i conti in qualche modo devono pur tornare. Ogni cosa deve avere il suo posto, ogni posto deve avere la sua cosa. Proprio come in una classe.
Una sfilata di prosciutti con tanto di marchio numerato impresso a fuoco si para davanti ai miei occhi: un etto di questo, tre chili di quello… e che il peso sia giusto, mi raccomando! Ancora una volta loro, i maledetti numeri!
Una classe è un gruppo di pari. Anche il collegio dei docenti è un gruppo di pari. In classe i numeri contano. Anche nel collegio contano. Ma sono numeri diversi. E la bilancia è truccata. Questo è chiaro.



giovedì 15 settembre 2011

lpcdcass, musica e canto per 400 ragazzi

Uno dei più begli incontri fatti in rete. Un'orchestra di quattrocento (dicasi 400) ragazzi che suonano, cantano e restituiscono allegria: su youtube lpcdcass.

domenica 11 settembre 2011

Manipolare il popolo: nulla di nuovo - di Mariaserena Peterlin



" Il popolo è mio, l'ho qui, in un pugno..."

‎"il popolo quando sente le parole difficili, si affeziona..."

Facciamo attenzione, non affezioniamoci, non cediamo, non abbassiamo la testa. 

… e non a caso di parole ce ne dicono tante, fiduciosi che noi, popolo di cittadini, non possiamo, non riusciremo a capire.
 Ma sarebbe bene cercare di capire.
Non dobbiamo rinunciare, rassegnarci e pensare che stia accadendo qualcosa di talmente  nuovo che non possiamo scegliere.
Ogni volta che pensiamo di essere  troppo impreparati per capire abbiamo davanti almeno due soluzioni:
a) dedicare tempo e attenzione allo studio dei problemi che ci sono proposti come troppo difficili
b) alzare la voce, ed esigere spiegazioni comprensibili.
Quelli che si propongono come classe dirigente (politica e non) o lo sono già non possono limitarsi a dire “lasciateci lavorare, voi non sapete farlo e lo facciamo noi!”
Chi vuole occupare posizioni di potere deve accettare le regole democratiche e deve essere in grado di render conto al popolo che gli dà mandato sia se governa già sia se si propone di governare nel nome del popolo.
Il video del geniale Ettore Petrolini riprende un discorso che percorre tutta la nostra storia, dal mondo antico (qui reso in satira) al Machiavelli ai giorni nostri.
E’ assolutamente necessario, quando il potere si fa maschera incantatrice e suggestiva, andare oltre la maschera.
Ricordiamoci che i diritti fondamentali sono (almeno) libertà, giustizia e lavoro.
Non possiamo sostituire  la “libertà” con la “promozione di sé”, la “giustizia” con la “meritocrazia” e il “lavoro” con le “opportunità”. Non possiamo perché così facendo ci consegneremmo nelle mani di chi ci inganna.
Attenzione alle chimere, ai sogni, alle illusioni, alle bufale. Torniamo invece ai fondamentali. La maschera di Nerone-Petrolini è su di noi, oggi come ieri ad ammonire.
La satira castigat ridendo mores , apriamo dunque bene gli occhi.
La libertà, la giustizia e il lavoro non ci saranno mai regalati. I punti deboli del popolo sono sempre gli stessi e chi vuole e può sa come lusingare e affascinare, confondere e sottomettere l’unica vera avversaria che teme davvero: l’idea.
La castrazione del pensiero è il vero pericolo.
L’idea grande, figlia di un pensiero forte, libero e democratico può suscitare ancora la passione civile e sociale di cui il nostro tempo ha perso memoria e che è necessario riaccendere.  
 Non dobbiamo dunque pensare di essere troppo poco preparati perché possiamo impegnarci, possiamo capire, possiamo almeno dire di no.
I nostri punti deboli, quelli su cui veniamo colpiti, sono ancora la soggezione indotta da una presunta superiorità parolaia e che vuol farci credere che stiamo giocando anche noi come i miliardari in calzettoni e parastinchi, troppo preziosi per essere solidali con il popolo, perché loro popolo non sono.
E’ ora di uscire da questa soggezione.

venerdì 9 settembre 2011

Oggi che si fa, prof?: Abbasso gli stereotipi

Oggi che si fa, prof?: Abbasso gli stereotipi

Il post è davvero importante, con grande equilibrio e competenza, basandosi su dati ed esperienze Vittoria documenta come a scuola si tenda ad applicare più che a studiare e sperimentare e si vada, (a volte, vien da dire, inconsapevolmente) verso un ripristino del principio di autorità e verso una adeguamento alla prassi. Vien da dire che forse schede, fotocopie, modelli da compilare ecc ecc sarebbero da ridiscutere. Personalmente auspico un rogo. Ma Vittoria Patti , da paziente scienziata, è molto più costruttiva di me. E io voglio bene e stimo chi costruisce. :-)

mercoledì 7 settembre 2011

Sciopero CGIL : e la crisi non unisce

imparare dal passato del mondo del lavoro
Ieri è stato il giorno dello sciopero generale, Cremaschi  aveva scritto: "Questo sciopero è dunque un primo segnale di una svolta" Invece qualcuno ha parlato di flop, e ne ha vilmente goduto. Peccato. "C'è da augurarsi che anche chi ha dovuto subire contestazioni e fischi , come il vecchio Bertinotti, che rappresenta molto per l'Italia che lavora, e può essere anche il simbolo storico di una sinistra che probabilmente non ha azzeccato tutte le sue scelte, ma che ha dato tanto al paese, continui a resistere, e a sostenere le ragioni del lavoro e dei lavoratori o meglio del popolo dei lavoratori.
Una domanda è quasi inevitabile: esiste ancora una categoria sociale consapevole di rappresentare il "popolo dei lavoratori"? Se non esiste o manca questa consapevolezza occorrerà ripartire da ancor più lontano, ma qualcuno deve sobbarcarsi in compito di farlo, di raccogliere le forze, di continuare a trasmettere segnali. E un segnale forte viene proprio dalla nostra storia ancora abbastanza recente da poterci insegnare molto. Mi riferisco alla nostra storia tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento quella che ci racconta come si sia passati da condizioni di esclusione delle donne e situazione semi-feudale dei lavoratori a una società dei diritti e come dall'analfabetismo e dal suffragio per censo si sia passati all'istruzione obbligatoria e al suffragio universale.
Qui si dovrebbe chiamare in causa la scuola e chieder conto ai docenti (non solo quelli di lettere e storia, ma certamente a loro in primis ) del perché, nonostante il loro insegnamento e i nostri attuali giovani appaiano così "ignoranti" da non saper interpretare il presente, storicizzare il contesto, e progettare il futuro. 
Già la scuola e gli insegnanti : perchè accade che, anche loro, latitino pure alle manifestazioni sindacali?
Se è vero che alcune categorie, come appunto i docenti, non hanno mai dato segnali particolarmente accesi di partecipazione a scioperi e manifestazioni è anche vero che, in linea generale, l’attuale precarizzazione del lavoro unita al sistema diffuso dei contratti a progetto, cococo, lavoratori costretti alla partita iva ecc ecc ha, nei fatti, ridotto parecchio il numero di tutti i lavoratori che possono davvero scioperare.
Personalmente sono sgomenta di fronte al fatto che tutti tendiamo alle divisioni piuttosto che all’unione; qualcuno di coloro che ha aderito allo sciopero si sdegna per la non partecipazione di altri lavoratori e dice che non si devono più lamentare o non “mando a…”.
Invece qui si commette un grave errore: non si deve “mandare” proprio nessuno in alcun luogo, piuttosto è necessario rifondare la solidarietà e la partecipazione; occorre credere fermamente nel futuro, e continuare a lottare per l’unione e per la crescita della consapevolezza dei diritti, per la giustizia sociale, per la lotta contro il privilegio.
Tutto il resto fa il gioco di quei signori che toccano e ritoccano la manovra sempre a nostre spese. 
Tutto questo ingrassa il padrone e tiene a digiuno il popolo. Ormai è tempo di indignarsi.
E’ bene, tuttavia, fare molta attenzione prima di fomentare ulteriori divisioni.