chi sono

Sono Maria Serena, ho insegnato letteratura italiana. Oggi scrivo e sono qui per riflettere, dialogare raccontare. I miei interessi sono rivolti alla comune condizione umana, anche quella raccontata dalla letteratura. Vorrei partecipare alla costruzione di un pensiero nuovo e diverso, fondato su radici antiche, che riconosca uguaglianza e giustizia a tutti.

giovedì 27 ottobre 2011

Opportunità diverse & generazioni a confronto - di Mariaserena

ecco perché, secondo me, è necessario che ognuno si chiami in causa da solo...
Accanto a me che scrivo tempestando la tastiera c’è il lettino del mio secondo nipotino che dorme. Guardo il suo sonno meraviglioso (quale altro aggettivo potrei usare, e vorrei anche mettere la M maiuscola) e non posso non chiedermi se anche lui finirà nel trita cervelli in cui tanti, troppi giovani e meno giovani sono dolcemente finiti.

Spero di no, spero che l’anima umana rimanga almeno per i bambini, spero che arrivi una svolta e si torni ad alzare la schiena, a togliere gli occhi da troppi display, per levare gli occhi alle stelle. 
Ma se anche non arrivasse, e non la spero a breve, mi chiamo responsabile di quello che accadrà in futuro e mi chiedo guardando la culla: cosa sono i bambini? Mattoni da inserire in un muro in mezzo ad altri mattoni uguali o da livellare, scalfire, limare perché si adattino al singolo spazio che gli è destinato?
No, non sono mattoni. Ma lo diventeranno. Dipende da ciascuno di noi.
 

Avari e prodighi, illustrazione di Giovanni Stradano (1587)
per la Divina Commedia, Inferno, Canto VII
"Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro"
Quello che è successo negli ultimi 40 anni è dipeso dall’attuazione di un progetto di demolizione che ha colpito sia la cultura sia l’istruzione, sia, e soprattutto, la trasmissione del sapere pragmatico e sociale insieme ai valori fondanti ogni singola nostra famiglia, comunità, paese e città.
Quello che è successo è sotto gli occhi, ma si distoglie lo sguardo e si reagisce dicendo “che possiamo fare?”.
Si può fare pochissimo se vogliamo farlo comodamente, ossia senza spostare nulla nello schema rassicurante, confortevole pur se miserabile in cui siamo precipitati.
Si può fare quello che hanno fatto i nostri predecessori (dai nonni in su, risalendo all’indietro) se fossimo capaci di dare anche vita e sangue per le nostre libertà e le nostre dignità. Ma già, le parole vita e sangue disgustano a meno che non se ne parli in un rassicurante approfondimentoda talk-show in cui la sigla incornicia chiude ogni storia tra saccenti e scosciate di turno.
Perché questo mio amaro scontento?

Mariastella e la rivoluzione delle Barbie - di Mariaserena

Mariastella Gelmini 
LA SVENTURATA (che fu nominata all'Istruzione) DISPOSE.


Credeva fosse una casa di bambole, invece era la scuola pubblica.
(post già pubblicato già nel Settembre 2009, ma ovviamente profetico.)

Si avverte che qui si fa un po' di satira, in regime di reciproca libertà.

La fortunata Mariastella quella volta ebbe in regalo un gioco bellissimo e nuovo; una grande, anzi enorme Scuola della Barbie con tanto di Miur, Usp e compagnia bella, con tanto di kit per la costruzione di mini-grandi scuolette, con tanti Big Jim prof e amiche della Barbie-maestre.
Aperta la confezione la gongolante Mariastella cominciò quello che riteneva il più bel gioco della sua vita. Si mise gli occhiali rosa, poi li tolse e scelse quelli blu-elettrico e dispose gli edifici, le aulette, le palestrine ed i mini-laboratori.
 
Mise i vestitini alle sue piccole mini alunne ed ai piccoli mini-alunni che ora sembravano i nanetti di Biancaneve del giardino, pettinò le maestre e lucidò vigorosamenti i prof Big-Jim.
 
Poi si dedicò all’edificio miur e, appolaiatasi sulla sua poltrona a viale Trastevere giocò a fare le ordinanze e le circolari. Arrivò a casa sua lo zio economista che le disse:
 

- Mariastella sei felice?
- Oh sì zietto Economista!
- E lo sai, vero, che nonostante tu sia piccola piccola hai avuto un bellissimo dono?
- Ooohhh sì zietto Economista!
- Lo sai vero che per un bel po’ devi accontentarti vero?
- Oh sì certo!
- Ok allora adesso gioca pure, ma non chiedere altro!

La felice Mariastella si fece prudente;

lunedì 24 ottobre 2011

RITRATTO DI INSEGNANTE

A sedici anni non avevo ancora deciso cosa avrei fatto “da grande” ma sapevo chi e come non volevo essere.
Dal mio diario di alunna.



21 ottobre
Oggi è arrivato il nuovo professore di italiano. Supplente e con qualche problema. È salito sulla pedana e si è appollaiato sulla sedia a guardare le montagne rocciose, quelle delle ragazze, ovviamente. Ha fatto l’appello. A me ha detto che ho gli occhi grandi ma secondo me ha fatto confusione perché, mentre lo diceva, guardava più in basso.
Quel parassita antifemminista di Barbaetutto, noto secchione asessuato, ha sghignazzato… Schifoso. Mi vendicherò prima o poi.
Sara Lapiatta mi ha mandato un bigliettino laconico: …che misura di occhi hai? Ho risposto che non le avrei passato la traduzione di greco… e che se era tanto curiosa mi doveva seguire in bagno per i commenti del caso. Detto fatto.
Quando sono tornata in classe, il condor era intento a creare alleanze con i maschi (si fa per dire)… Tra provoloni auricchio ci si intende.
L’ho potuto osservare in tutto il suo splendore, questo fantastico rapace…. Giacca da prima comunione, camicia con due bottoni mancanti. Poi cattedra e poi più niente. Non mi sono data per vinta. Mi sono soffiata il naso per finta e poi mi sono alzata per raggiungere il cestino.
Lui sempre a parlare con i provoloni…
Ma sarà vera la storia che ai militari danno il bromuro?
Comunque una cosa così io non l’ho mai vista. Un buco enorme sul calzino sinistro del provessore (professoreprovolone) proprio lì dove orlo dei pantaloni, calzino e scarpa si baciano fin troppo calorosamente. Non so perché ma mi è venuta in mente la parola “tovarish” (compagno, in russo). Forse perché un calzino così malridotto, una scarpa così scalcagnata e un pantalone così corto non possono che essere compagni di trasandatezza? Faccio un discorso borghese? Non lo so davvero. Se è proletario ha sbagliato abbigliamento, se non lo è, allora si tratta di un sudicione. Ah, dimenticavo: due macchie di olio sulla camicia. Vedremo che professore è.
Lo chiamerò tovarish, è un nome che può andare bene.

15 novembre
Novembre mese dei morti. Dei morti che riposano in pace nelle aule. Un crisantemo su ogni banco. Tovarish dice che siamo in ritardo col programma.
I ritardati sono sempre in ritardo come i provoloni ammuffiti.
Cinquanta pagine di letteratura italiana letteralmente violentate in due settimane. Tovarish è uno studente che studia… Ormai non lo guardo più in faccia mentre spiega. Né prendo appunti. Il motivo è semplice. È molto più divertente seguire col dito sul libro per vedere se salta una parola. Su una lezione di due pagine non ha fatto mai cilecca. Ma si trattava di biografie.
Il buco nel calzino non c’è più. Si sarà seduto anche in sala professori…
L’altro giorno, però, qualche segno di cedimento sulla storia della critica. Qualche lapsus qua e là, qualche delicata sbirciatina sul libro che tiene sempre aperto davanti a sé.
Dal dieci siamo passati al settepiù.
Io, Sara Lapiatta, Emi e Renato ci siamo organizzati e abbiamo costituito un gruppo di sostegno e di aiuto. Tovarish va aiutato, bisogna liberare l’uomo dall’ignoranza.
Studenti di tutto il mondo unitevi. Aiutare il provessore è morale.
Appena si ferma e cerca nella sua mente la fotografia mentale della sudata pagina, uno di noi, a turno, gli legge la frase. Fino ad ora gliene abbiamo lette sei. Insomma, bisogna pur che partorisca sapienza questo benedetto provolone di un Tovarish. Socrate insegna. E a noi fare gli ostetrici non dispiace affatto. Piacerebbe anche a quell’asessuato di Barbaetutto ma lui è troppo piccolo, in tutti i sensi… Forse glielo spiegheremo con un disegnino…
Comunque Tovarish ha cominciato a capire la presa per i fondelli. Ma noi vigiliamo e siamo pronti per la lotta armata.


3 dicembre
Tovarish fa le due di notte. Lo si nota dalle occhiaie sempre più profonde. Ore e ore di studio matto e disperatissimo. Vuole arrivare primo. In questo periodo la sua memoria è al massimo.
Starà prendendo Acutil e zabaione.
Oggi lectio magistralis su Dante. La teoria dei due soli se l’è studiata su un altro libro. Verificherò quale. L’altro giorno stava armeggiando nella biblioteca della sala docenti.
Mi sono messa d’accordo col bidello. Caffè pagato. Domani saprò se ha chiesto in prestito qualche volume di storia della letteratura italiana. Il collettivo si è rimesso in moto.
Comunque, per farci capire (ha detto lui), ha fatto un esempio. Secondo me era meglio il disegnino. Barbaetutto sarebbe stato molto felice di copiarlo sul suo quaderno. Pure il suo quaderno è un secchione.
Mentre parlava di impero e di papato, poscia che costantin l’aquila volse…, ho fatto azione di disturbo, almeno così ha pensato lui.
Gli ho chiesto se due stati non gli sembravano troppi, visto che uno era già troppo. Per un attimo è rimasto interdetto. Ha continuato a spiegare e ha liquidato la cosa come una sciocchezza. Però un lampo è passato nei suoi occhi. Uno a zero, palla al centro. Per me. O almeno così credevo…
Lezione conclusa dopo cinque minuti. Tempesta in arrivo. Interrogazione. Io e Barbaetutto alla cattedra. Tovarish ha capito la mia avversione per l’eunuco secchione. L’ha fatto apposta. La vendetta del provolone... di un provolone che sta ammuffendo, non c’è dubbio…
Domani ci sarà ancora un crisantemo su ogni banco. Su quello dell’eunuco secchione una m***a di plastica residuato bellico dell’ultima festa di carnevale.
Comunque mi sono beccata tre. Che me ne frega. Stasera ho riunione al collettivo e c’ho invitato pure Tovarish mentre stava per uscire dalla classe. Non mi ha risposto. Ovvio, è in putrefazione…


Fermina Daza

venerdì 21 ottobre 2011

Il Manifesto degli insegnanti (ed io) tra progetto, utopia e realtà



Scrivo sempre quello che penso e non di rado mi chiedo perché cedo alla tentazione di pubblicarlo su web visto che scrivere solo per me stessa è una gratificazione assoluta. La causa probabilmente risale al mio lavoro di insegnante-che-racconta che mi ha geneticamente modificata. E’ una sorta di sindrome espansiva (il nome l’ho inventato adesso, sul momento) che ho spesso osservato dentro di me, e l’ho anche scritto in una pagina de La mia classe non è.doc.

“Così mi capita di attraversare i quartieri di Roma e di vedere una strada, un ponte o un palazzo antico, o di leggere un libro o un giornale o visitare una mostra o di riflettere per cercare di capire quello che accade nel mondo e di accorgermi che sto già cominciando, in automatico, a spiegarlo silenziosamente, dentro di me,  a loro.”

L’insegnante che racconta, ed in questo caso chi scrive, non nasconde se stesso, anzi usa ogni strategia per rendere la sua narrazione più attraente. Ma nel suo lavoro sa che non ci sono due situazioni narrative uguali come non ci sono classi, ragazzi o lezioni uguali; lo scrisse anche Goethe: non ci sono ripetizioni per il cuore, ma solo per la mente. 
Chi insegna raccontando ha costruito la sua figura professionale con la volontà e la mente (gli studi, i titoli, l’aggiornamento et similia) ma poi ha buttato il suo cuore nella classe e non poteva far altro che questo.

Ho partecipato alla costruzione del Manifesto degli insegnanti con il cuore; tanto ne misi che, a un certo punto mi si era come ingolfato e se non fosse intervenuto Andreas Formiconi che in una indimenticabile domenica pomeriggio gettò, con altrettanto e più cuore e lucida mente, una bellissima sua pagina tra i post del Ning LSCF dicendo che quella era una sua bozza, credo che non avrei trovato il filo del discorso. Naturalmente in tanti hanno valentemente partecipato fino a creare la versione definitiva, ma come dice la canzone per fare un albero ci vuole un seme, e quel seme fu gettato così.
Fu dunque, per chi scrive, un’impresa tra la coltivazione e il cantiere navale. Il cantiere, preparato da 
Gianni Marconato, era pronto ed armato di volontà perciò il Manifesto nacque e fu ben allevato dal nocchiero-giardiniere de LSCF Gianni.

Dopo più di un anno rileggo ancora una volta il testo e mi chiedo quanti altri semi possa aver generato. L’utopia ha ispirato un testo alto e denso che merita di esser tradotto in prassi: è accaduto oppure ne abbiamo fatto solo un fiore all’occhiello per migliore l’immagine? La realtà quotidiana del lavoro dell’insegnante che ha collaborato a scrivere, che ha condiviso e linkato, che ha diffuso volenterosamente il Manifesto ne è stata scalfita, modificata, ispirata o illuminata?
Ma quest’oggi non è giorno di risposte.
Chi scrive queste righe sta raccontando e non emetterà giudizi.

Chi scrive adesso alza spesso lo sguardo dallo schermo per guarda dalla finestra le foglie che bevono avidamente la pioggia prima di cedere al ciclo autunnale che le renderà humus vitale per l’albero stesso nato (quanto tempo fa?) sempre da un semplice ed umile seme.
Chi scrive immagina la storia del seme, e prova a raccontarla a modo suo. Un seme, in fondo, è uno tra i tanti suoi simili e per vivere deve essere buona, fortunata e ben curata semente. Un seme, da sempre, è solo un’opportunità, è un’ipotesi di vita. Anche il nostro Manifesto è un seme; chi ha partecipato alla sua nascita sa di aver fatto bene e sa anche di non essere responsabile di tutte le vicende che quel seme incontrerà e non può fare a meno di chiedersi quale è stata o sarà la sua storia.


Un albero fiorì di bianchi grappoli profumati, era una vigorosa acacia. Dopo qualche tempo il vento fece cadere ai suoi piedi dei baccelli sottili pieni di semi. Alcuni passanti li videro. Un vecchio li frugò col suo bastone, ne raccolse faticosamente una manciata e pensò che avrebbe provato a darli come becchime al fringuello che gli teneva compagnia dalla gabbietta appesa sul balcone. Una frettolosa signora li pestò, controllò che non le avessero impolverato le scarpe e se ne andò per i fatti suoi. Un artista in cerca di fama li guardò incuriosito, ma vide che non avrebbero aumentato la sua fama e volse lo sguardo in cerca di vantaggiose o più facili opportunità. Un grosso calabrone ronzante passò a veloce volo radente in cerca di prede, per sfuggirlo una donna che arrivava si chinò e vide i baccelli ormai secchi, sorrise li raccolse in un kleenex e pensò che li avrebbe portati al suo bambino che stava per uscire di scuola e già pensava che si sarebbe messo a giocare con il nintendo.
Il ragazzino arricciò il naso vedendoli, avrebbe preferito il solito ovetto kinder, ma poi la mamma gli spiegò che dentro quelle scorze secche c’erano semi e che i semi si potevano mettere in terra per fa nascere una pianta. Lo seminarono in un vaso, e non nacque nulla. Ma ormai il bambino aveva elaborato una sua teoria: se dai semi nasce una pianta (di questo era sicuro perché aveva chiesto anche alla maestra e a internet) ma non era accaduto, allora era la mamma che doveva aver sbagliato qualcosa. E lui continuò ad occuparsene, provando e riprovando, fino a riuscirci.

Dai semi può nascere o non nascere una pianta, ma quasi sempre se ne sprigiona una curiosità, un’ipotesi, una domanda. Ecco perché non bisogna smettere di curarsene, di raccoglierli, di diffonderli. Ecco perché il rito dell’agricoltore, come quello del navigante consiste nel ripetere azioni e rotte sicure conosciute, ma per scoprirne di nuove.

5. Non potendo trasmettere ai miei studenti la verità, mi adoprerò affinché vivano cercandola.(dal Manifesto degli Insegnanti)

L’impegno a cercare la verità è il più arduo, insieme a quello dell’impegno per il bene comune, che si possa trasmettere ai nostri ragazzi; ecco perché questo è il pezzo di Manifesto che prediligo ecco la vera sementa.

E naturalmente lo racconto a modo mio.

mercoledì 19 ottobre 2011

BELLA DOMANDA!







Ma non ha niente addosso! disse un bambino. Signore sentite la voce dell'innocenza! replicò il padre… Così dice la fiaba.

In classe. Si ragiona del rapporto tra tecnologie e ambiente.
La domanda nasce spontanea. Ma se l’uomo conosce i danni provocati dall’inquinamento, perché non smette di inquinare? Bella domanda davvero. Rispondo che nemmeno io conosco la risposta. Mento, sapendo di mentire. Aggiungo che è necessario cercare insieme le risposte. Iniziamo. Troviamo di tutto, di tutto e di più. Peccato che questo tutto che si trova dappertutto indossi i vestiti nuovi dell’imperatore. Energia nucleare, energie alternative, soluzioni, rimedi, cause, effetti, non manca proprio nulla per confezionare un buon “prodotto”. Chiedo se le informazioni raccolte siano utili a rispondere alla domanda iniziale. La risposta è univoca: più o meno le stesse cose che sono scritte in un certo libro di testo. Già, un bel libro di testo all’avanguardia che pone speranze nelle energie alternative dai magici poteri. Un bel libro di testo, anche lui con i vestiti nuovi dell’imperatore. Ma cosa mi aspettavo? Di trovare scritto che l’energia, anche quella alternativa, serve a produrre beni che verremo indotti ad acquistare? Che questo è un sistema che misura la felicità in termini di possesso e di soddisfacimento dei bisogni indotti? Che a qualcuno interessa solo che si continui a consumare sempre di più? Che il sistema non può essere migliorato dalle nuove tecnologie se l’uomo non si ripensa? Che se da una parte si ragiona sulla sostenibilità dall’altra si lavora per rendere sempre più forte la dipendenza dai consumi stessi?
Intervallo. Rileggo Russell, e so già dove cercare. “Anche moralmente è un grave danno insegnare a un giovane ad essere sempre ortodosso… i professori più bravi sono costretti a essere ipocriti, e a dare quindi cattivo esempio…”. So di non essere una brava insegnante perché dico le bugie ma so anche che devo scegliere fra il dire o l’essere una dei tanti “ipocriti (a cui) si permette l’accesso alle cattedre”. I miei ragazzi sono davvero troppo piccoli ma io non posso non dire, è necessario che li incoraggi, per quel che è possibile, a “gustare le gioie della libera speculazione”. Russell sparisce nella borsa ma non dalla mia testa.
Circle time. Mi preparo a dire. Prima di incominciare G. mi informa che ha intenzione di tenere una lezione ai compagni sulla funzione multitasking di uno smartphone. Bene, va bene, gli dico, così imparerò anche io che col cellulare litigo spesso e volentieri. Mentre si sistema sulla sedia, M. chiede al gruppo: Ma il telefono non serve solo per telefonare? Il circle time può iniziare.



Non ha niente addosso! disse un bambino. Signore sentite la voce dell’innocenza?
Lancio la palla e chiedo se il telefono serve solo per telefonare… Libere speculazioni e non solo…




Fermina Daza

martedì 18 ottobre 2011

Prof e il trucco

Picasso, donna allo specchio 

No, non parlo d’imbroglio scolastico della serie come t’interrogo il renitente oppure compito in classe a sorpresa.

Parlo invece del modo di mostrarsi, del maquillage.
Ci penso a volte, e mi chiedo quale effetto abbia, insegnando nelle scuole, il modo o meglio il look del prof o della prof e il loro acconciarsi d'insieme. D’altronde è un argomento cult anche su youtube.
Ci ho pensato recentemente in un riflesso di piccolo spicchio autobiografico di vita vissuta.
Una sera ho accompagnato a teatro una classe.
Roma, Teatro Quirino, in pieno centro: davano Shakespeare - Giulio Cesare. Ovviamente (per me era ovvio) sono arrivata puntualissima, con i testi dell'opera per loro. 
Mi ero messa in ordine, e mi consideravo una dignitosa prof che, porta a teatro i suoi ragazzi; stavo al ruolo senza oltrepassare le righe e nemmeno i quadretti.
Bella notte romana tipica: fresco inverno senza gelo. Lasciata l’auto, arrivo percorrendo via del Corso, sfiorando sulla sinistra la storica via Lata, voltando a destra per via dell’Umiltà e imboccando le belle stradine adiacenti il teatro.
Eccomi: alcuni studenti mi aspettano già.
Tra questi Claudio che mi guarda critico (ma mi guardava sempre un po' critico e non  ci faccio troppo caso).
Questa volta lui mi rivolge la parola e mi dice, scuotendo la testa: "Nooo, almeno stasera un po' di rossetto se lo poteva mettere!"
Ma quanto non si fanno gli affari loro? Ho pensato lì per lì.
Eppure non se li fanno: mai.
E dunque non siamo trasparenti. 
E col trucco o senza trucco comunichiamo e loro se ne accorgono.
Immaginiamo il resto?

lunedì 17 ottobre 2011

MOLTA POLVERE SOTTO IL TAPPETO




Entri in classe e cancelli dalla mente superlezione che avevi intenzione di fare. Non sei né giudice né attacchino. Ora devi decidere, e devi decidere presto e bene.
Chiedi:
Scusa, mi aiuti a capire perché hai dato uno schiaffo al tuo compagno?.
L’aggressore ti risponde: Stavo solo giocando.
E la vittima aggiunge: No, non mi sono fatto niente, era solo un gioco..
Ti viene voglia di partire con la paternale, una di quelle paternali degne del miglior lisciatore di pelo. Conti fino a dieci per non esplodere e, andando contro il tuo stesso impulso, prendi la decisione, non quella giusta, perché quella giusta è già scritta nel Regolamento d’Istituto, e tu lo sai bene. Ma tu non vuoi essere giusto. Non scriverai sul registro e non sentenzierai. Se lo farai, vuol dire che hai iniziato a vivere anche tu per default.
Sai che devi decidere presto e bene. Giocherai con i tuoi ragazzi e per i tuoi ragazzi. Il gioco del mantello che rende invisibili per concordare e negoziare regole comuni e condivise davvero, le regole della base.
Hai contato fino a dieci perché non ti senti né giudice né attacchino, hai contato fino a dieci perché irrogare sanzioni non fa parte della tua natura, hai contato fino a dieci perché non è possibile attaccare una superlezione come se nulla fosse accaduto, hai contato fino a dieci perché nessuno se la può cavare dislocando le proprie responsabilità e ora senti che la responsabilità è tua. Alla faccia delle prove invalsi.


Hai contato fino a dieci considerando che i tuoi alunni non sentono il bisogno di imparare perché sanno già come si vive. E questo glielo hai insegnato anche tu quando hai scusato la tua azione ricorrendo a principi etici, quando hai reso meno gravi le conseguenze delle tue azioni, quando hai addossato la responsabilità a quel fantomatico altro che non sei mai tu, quando hai reso meno umani i tuoi alunni, quando hai rigettato le tue responsabilità sulle tue stesse vittime. Quando gli hai insegnato il meccanismo del disimpegno morale. Lo hai fatto spesso. Gli alunni non imparano. E che cosa dovrebbero imparare? Sanno quanto gli basta e ad insegnarglielo sei stato anche tu. Se è bastato a te, basterà anche a loro.
Piccoli bulli e bulli grandi. Molta polvere sotto il tappeto.


Fermina Daza

martedì 11 ottobre 2011

IMPANARE E FRIGGERE


Una riflessione “a caldo” e, questa volta, fuor di metafora.
Gli insegnanti non sono così stupidi come qualcuno ritiene che siano. Tutto il “popolo docente”, anche quello che sta per andare in pensione, fosse anche per averlo sentito ripetere più volte dai veri e falsi profeti, è consapevole che la scuola non è più quella di una volta. Nella maggior parte delle scuole ci sono LIM e software, aule di informatica e tutto il resto dell’armamentario che digitalizza il lavoro. Anche il personale ATA lo sa, lo sanno tutti che il vento è cambiato, anche i genitori che accedono al sito della scuola per ricevere informazioni sul POF e sull’eventuale organizzazione amministrativa, didattica ed educativa. Se qualche scuola si era sottratta alla legge sulla trasparenza, ha dovuto adeguarsi alla normativa, come è accaduto per quelle scuole che hanno dovuto dotarsi di un qualche dominio per poter gestire i piani PON o gli eventuali corsi FAD. La tecnologia è nelle scuole, questo è certo, meno certo è invece affermare che di essa venga fatto un buon uso. Ma questo è naturale, di tutte le cose può essere fatto un buon uso e un cattivo uso. In tutti i casi, mi sembra che, a parte le puntate di vittimismo che sono patrimonio dei docenti in quanto non santi, si insista molto sul valore della professionalità che deve derivare dalla capacità di saper guardare il mondo con l’ottica dell’otto rovesciato. Bene, gli insegnanti non sono dei santi e non fanno miracoli ma sono consapevoli, anche quelli meno determinati, che il vento ha cominciato a spirare da un’altra parte. Si fa un gran parlare di capacità dei docenti, di incapacità dei docenti, di insegnanti che si sacrificano come martiri nelle arene in nome di un credo. Si può essere menefreghisti o intellettuali, colti o incolti, propugnatori del libro di testo o fautori della didattica che si va facendo, ognuno mette in gioco se stesso e le sue credenze. Mala scuola, buona scuola, se ne può discutere all’infinito, per tentare il nuovo o per resistere ad esso, ma una cosa è certa: tutti i docenti sanno che si è giunti al punto del non ritorno, tutti ne sono pienamente consapevoli, anche quelli che fanno orecchio da mercante mummificandosi all’interno di una nicchia ecologica. Il cambiamento è sotto gli occhi di tutti, come sotto gli occhi di tutti sono le infinite possibilità del web. Di quel web in cui abbondano termini in lingua inglese, parole che potrebbero avere il loro corrispettivo anche nella lingua italiana, se qualcuno si sforzasse di andare minimamente oltre la moda del momento, di assimilare davvero. Il web è, nessuno lo nega, ne sono consapevole io, ne sono consapevoli i ragazzi che lo usano con e senza di me. Anche i docenti meno motivati conoscono le infinite possibilità del web, non le negano, semplicemente trovano più comodo non spendersi, complice il sistema, più di tanto. Questo è quanto: troppe forzature per mandare avanti il discorso che si vuol mandare avanti.
Ma, giusto per forzare, vado oltre. Il web offre infinite risposte e infinite possibilità e non mi dilungo su questo, sarebbe come dire che l’acqua calda è calda, lapalissiano Dico che il web è necessario, mai negato questo. Ma il punto è un altro. A tutti piacciono i voli pindarici, a me per prima. La scuola deve essere questo e non deve essere quello, i bravi insegnanti devono fare così e non cosà. La verità è che gli insegnanti, tutti, sanno quello che devono fare e questo fare è sempre, ovviamente, in relazione con cultura, carattere, stile di apprendimento posseduti. È vero, gli insegnanti non vogliono ricevere lezioni, vogliono solo darne, un aspetto spinoso della faccenda, senza alcun dubbio, un aspetto di cui però si riesce a parlare tanto, tantissimo. E da qualunque parte venga la sentenza, il processo intentato alla scuola fa numeri e non mi riferisco di certo a quelli arabi.
Dove sta il problema? La scuola non è solo web, ma di questo se ne parla un po’ meno, perché i numeri non salgono se si parla di disagio socio-culturale, termine ormai scomparso sulle carte ma vivo e vegeto nelle classi, povertà, emarginazione e chi più ne ha più ne metta. E nessuno parla con la dovuta attenzione, a parte le associazioni che si occupano della materia, della condizione degli alunni diversabili, dei DSA, di quelli con disturbi aspecifici in costante aumento, dell’iperattività, della disgregazione del tessuto sociale, della mancanza dell’anello generazionale, insomma, ci siamo capiti. Le crociate sono sempre pronte a partire ma solo per le zone ove il successo è assicurato. Parlare del concorso dei ds fa più notizia delle pessime condizioni in cui versano le scuole e non solo per colpa degli insegnanti, come saremmo indotti a credere. Il web non dà risposte a tutto ciò, al massimo ti puoi rendere conto di quanti sono nelle tue stesse condizioni, ma questa cosa ad un certo punto te la fai impanata e fritta. Come mi faccio impanati e fritti tutti i discorsi intorno ai capetti del giorno, ché parlare dei capetti non risolve le questioni di nessuno. E gli insegnanti, a questo punto, non hanno bisogno nemmeno di chi gli dica cose si impana e si frigge perché è da un bel po’ che impanano e friggono da soli. Senza soldi non si cantano messe, diceva mio padre. E le messe si possono cantare sul web perché cantare in rete non costa nulla, lo sto facendo anche io in questo momento, me ne rendo perfettamente conto. Ma ogni acuto in classe ha il suo prezzo e lì non siamo soli a cantare, lì si parla di coro, quello che facciamo con i nostri ragazzi. E lì siamo davvero soli, tutti, a impanare e friggere. E agli alunni in difficoltà o a quelli con handicap a cui viene dimezzato il numero di ore non puoi dar da mangiare il web, devi dargli cibo vero e quello costa. Ed è un cibo che, nonostante la buona volontà, non posso portarmi da casa perché a casa mia non ho gli armadi pieni di educatori, pieni di ore di sostegno, pieni di reti fatte di psicologi, di psichiatri e di équipe psicopedagogiche…e di esperti vari. E in certi casi è un bene non averceli negli armadi perché quando escono alla luce del sole sono capaci solo di scrivere in bella copia come si frigge una cotoletta. Di ricette ne ho le tasche piene.
Fermina Daza

lunedì 10 ottobre 2011

DEGLI ANELLI AL NASO E DEGLI ESPERTI



L’esperto si aggira con fare amichevole. È discreto, entra in punta di piedi, out quanto basta, nel sacco perle e oro da scambiare con specchietti, un generosissimo babbo natale da calendario senza stagioni, di quelli che quando gli si rompe la slitta sono capaci di uscire dal desktop o di saltarti sulle ginocchia per farti cucù.
L’esperto è necessario, indispensabile, perché il mondo è pieno di Ottentotti di leopardiana memoria, gente rozza, senza cuore, fantasia e sentimenti, gente che usa la ragione per portare l’anello al naso. L’esperto fa delle crociate contro gli anelli al naso, ne vede dappertutto, ecco, riesce a vedere persino il mio. Perle e oro anche per me dal babbo natale senza stagioni. In cambio posso dare solo specchietti, miseri specchietti opachi. Uno scambio iniquo che diventerà equo se indosserò oro e perle. Perle ed oro in cambio del mio anello al naso. Da buona ottentotta leggo e ascolto col dito indice infilato nel mio anello al naso. Lo tengo ben stretto il mio anello perché non scivoli nel cervello. Ho indossato il bracciale d’oro e anche la collana di perle ma l’anello al naso è sempre lì, non ne vuol sapere di andarsene. Forse è solo una questione di tempo. Continuo a leggere e ad ascoltare mentre il luccichìo dell’oro e delle perle comincia ad affievolirsi. Perle ed oro sono opachi come il mio specchietto e lo scambio equo ridiventa iniquo. In tale turlupinatura l’unica cosa che si salva è il mio anello al naso su cui tengo ancora infilato il dito indice. Credo che non lo toglierò, il mio anello, perché in fondo sono contenta di essere un’ottentotta rozza, senza cuore, fantasia e sentimenti, una che usa la ragione per impedire all’anello di arrivarle nel cervello. Così, tenendomi il mio anello, sarò sicura di vedere meglio quello che c’è pure sul naso del babbo natale senza stagioni che regala perle ed oro.
Scambio impossibile per par condicio.

Fermina Daza

venerdì 7 ottobre 2011

Alla libertà e al futuro - di Mariaserena Peterlin

foto di Mariaserena


Al futuro

L’anima si ripiega
e in silenzio si chiede
se, secca ogni parola,
non convenga il silenzio.

Replicare al banale
rintuzzare l’ottuso
rispondere al volgare ciarlare
oggi in uso ecco il dubbio:
conviene?

Oppure forse è meglio
che si scelga un silenzio
più burbero d’un tuono
che attenda a fulminare
più chiuso d’una vena
d’acqua profonda e tersa
che attenda di sgorgare?

Nel dubbio ascolta i suoni
l’anima dubitosa
di musica a cascate,
riscopre quei colori
stracci di fine estate.

Chi giudica e s’indigna
sceglie il rumore ed alza
una bandiera o insegna?
Ma cosa rappresenta
un grido o uno sbeffeggio
che impreca al male e peggio?

Chi tace e pensa al dopo
invia segnali chiari,
tracce segnate appena
su un’erba o su un’ondata
di mare in libecciata:
orme di una stagione
che fu la nostra estate
colorata di rosse
bandiere appassionate
dal lavoro e il pensiero
e non da un tanfo nero.

sabato 1 ottobre 2011

NUOTO LIBERO

Sala docenti vuota. Per un’ora sarà nuoto libero. Mi tuffo.
Polanyi mi piace, mi piace sentirgli dire che la didattica è un’arte che non può essere specificata nei dettagli e non può essere trasmessa mediante prescrizioni… Già, la didattica è un’arte. E l’artista non conosce ricette da applicare, può solo andare oltre superando se stesso o il maestro, se mai ha eletto qualcuno a maestro.
Considero lo stato dell’arte, quello della mia arte, e mi chiedo quante volte sono riuscita ad andare oltre e se sono davvero andata oltre me stessa. Nessuna risposta. Impossibile per me definire l’infinita sequenza degli atti creativi. Impossibile spiegare la nascita del pensiero, impossibile descriverne il concepimento. C’è sempre un quid che sfugge… La sequenza degli atti creativi è talmente veloce da rendere necessario l’uso di una lingua supersonica. Fantastico su sequenze e frequenze da poter utilizzare ma c’è sempre un quid che sfugge.
Cerco riparo da me stessa nel sano pragmatismo di Pellerey. Niente arte questa volta. La didattica è fatta di conoscenze e competenze che consentono di praticare un insegnamento all’insegna dell’efficacia. Non ne sono proprio sicura ma a braccio così mi pare di ricordare.
Ma il termine efficacia mi rimanda all’andare oltre. Parto. Quest’anno voglio sperimentare la robotica in classe. Ho già una parte del percorso in testa. Al resto penserà la divina scintilla, quella scintilla che non so raccontare.
La sala docenti a poco a poco si riempie di voci e di aroma di caffè. La campanella sta per suonare. Un ultimo pensiero alla robotica, anzi una domanda, la prima di una lunga serie. $$$ per il materiale?
Qui non mi aiutano né Polanyi né Pellerey. Superando la soglia della sala docenti, macino possibili soluzioni:
1) Chiedere a scuola (il fondo del barile è stato già grattato, dovrei accontentarmi del buco…);
2) Chiedere a privati (mmmhhh, sarebbero i privati a non accontentarsi…..);
3) Chiedere a me stessa (portare il materiale da casa. Possibile, anzi, certo…)
Raggiungo la classe, un orizzonte sempre nuovo in un mondo in cui non c’è più nulla da scoprire o un fondo da grattare. Inviterò i ragazzi a nuotare con me. Nuoto libero.

Fermina Daza