chi sono

Sono Maria Serena, ho insegnato letteratura italiana. Oggi scrivo e sono qui per riflettere, dialogare raccontare. I miei interessi sono rivolti alla comune condizione umana, anche quella raccontata dalla letteratura. Vorrei partecipare alla costruzione di un pensiero nuovo e diverso, fondato su radici antiche, che riconosca uguaglianza e giustizia a tutti.

martedì 11 ottobre 2011

IMPANARE E FRIGGERE


Una riflessione “a caldo” e, questa volta, fuor di metafora.
Gli insegnanti non sono così stupidi come qualcuno ritiene che siano. Tutto il “popolo docente”, anche quello che sta per andare in pensione, fosse anche per averlo sentito ripetere più volte dai veri e falsi profeti, è consapevole che la scuola non è più quella di una volta. Nella maggior parte delle scuole ci sono LIM e software, aule di informatica e tutto il resto dell’armamentario che digitalizza il lavoro. Anche il personale ATA lo sa, lo sanno tutti che il vento è cambiato, anche i genitori che accedono al sito della scuola per ricevere informazioni sul POF e sull’eventuale organizzazione amministrativa, didattica ed educativa. Se qualche scuola si era sottratta alla legge sulla trasparenza, ha dovuto adeguarsi alla normativa, come è accaduto per quelle scuole che hanno dovuto dotarsi di un qualche dominio per poter gestire i piani PON o gli eventuali corsi FAD. La tecnologia è nelle scuole, questo è certo, meno certo è invece affermare che di essa venga fatto un buon uso. Ma questo è naturale, di tutte le cose può essere fatto un buon uso e un cattivo uso. In tutti i casi, mi sembra che, a parte le puntate di vittimismo che sono patrimonio dei docenti in quanto non santi, si insista molto sul valore della professionalità che deve derivare dalla capacità di saper guardare il mondo con l’ottica dell’otto rovesciato. Bene, gli insegnanti non sono dei santi e non fanno miracoli ma sono consapevoli, anche quelli meno determinati, che il vento ha cominciato a spirare da un’altra parte. Si fa un gran parlare di capacità dei docenti, di incapacità dei docenti, di insegnanti che si sacrificano come martiri nelle arene in nome di un credo. Si può essere menefreghisti o intellettuali, colti o incolti, propugnatori del libro di testo o fautori della didattica che si va facendo, ognuno mette in gioco se stesso e le sue credenze. Mala scuola, buona scuola, se ne può discutere all’infinito, per tentare il nuovo o per resistere ad esso, ma una cosa è certa: tutti i docenti sanno che si è giunti al punto del non ritorno, tutti ne sono pienamente consapevoli, anche quelli che fanno orecchio da mercante mummificandosi all’interno di una nicchia ecologica. Il cambiamento è sotto gli occhi di tutti, come sotto gli occhi di tutti sono le infinite possibilità del web. Di quel web in cui abbondano termini in lingua inglese, parole che potrebbero avere il loro corrispettivo anche nella lingua italiana, se qualcuno si sforzasse di andare minimamente oltre la moda del momento, di assimilare davvero. Il web è, nessuno lo nega, ne sono consapevole io, ne sono consapevoli i ragazzi che lo usano con e senza di me. Anche i docenti meno motivati conoscono le infinite possibilità del web, non le negano, semplicemente trovano più comodo non spendersi, complice il sistema, più di tanto. Questo è quanto: troppe forzature per mandare avanti il discorso che si vuol mandare avanti.
Ma, giusto per forzare, vado oltre. Il web offre infinite risposte e infinite possibilità e non mi dilungo su questo, sarebbe come dire che l’acqua calda è calda, lapalissiano Dico che il web è necessario, mai negato questo. Ma il punto è un altro. A tutti piacciono i voli pindarici, a me per prima. La scuola deve essere questo e non deve essere quello, i bravi insegnanti devono fare così e non cosà. La verità è che gli insegnanti, tutti, sanno quello che devono fare e questo fare è sempre, ovviamente, in relazione con cultura, carattere, stile di apprendimento posseduti. È vero, gli insegnanti non vogliono ricevere lezioni, vogliono solo darne, un aspetto spinoso della faccenda, senza alcun dubbio, un aspetto di cui però si riesce a parlare tanto, tantissimo. E da qualunque parte venga la sentenza, il processo intentato alla scuola fa numeri e non mi riferisco di certo a quelli arabi.
Dove sta il problema? La scuola non è solo web, ma di questo se ne parla un po’ meno, perché i numeri non salgono se si parla di disagio socio-culturale, termine ormai scomparso sulle carte ma vivo e vegeto nelle classi, povertà, emarginazione e chi più ne ha più ne metta. E nessuno parla con la dovuta attenzione, a parte le associazioni che si occupano della materia, della condizione degli alunni diversabili, dei DSA, di quelli con disturbi aspecifici in costante aumento, dell’iperattività, della disgregazione del tessuto sociale, della mancanza dell’anello generazionale, insomma, ci siamo capiti. Le crociate sono sempre pronte a partire ma solo per le zone ove il successo è assicurato. Parlare del concorso dei ds fa più notizia delle pessime condizioni in cui versano le scuole e non solo per colpa degli insegnanti, come saremmo indotti a credere. Il web non dà risposte a tutto ciò, al massimo ti puoi rendere conto di quanti sono nelle tue stesse condizioni, ma questa cosa ad un certo punto te la fai impanata e fritta. Come mi faccio impanati e fritti tutti i discorsi intorno ai capetti del giorno, ché parlare dei capetti non risolve le questioni di nessuno. E gli insegnanti, a questo punto, non hanno bisogno nemmeno di chi gli dica cose si impana e si frigge perché è da un bel po’ che impanano e friggono da soli. Senza soldi non si cantano messe, diceva mio padre. E le messe si possono cantare sul web perché cantare in rete non costa nulla, lo sto facendo anche io in questo momento, me ne rendo perfettamente conto. Ma ogni acuto in classe ha il suo prezzo e lì non siamo soli a cantare, lì si parla di coro, quello che facciamo con i nostri ragazzi. E lì siamo davvero soli, tutti, a impanare e friggere. E agli alunni in difficoltà o a quelli con handicap a cui viene dimezzato il numero di ore non puoi dar da mangiare il web, devi dargli cibo vero e quello costa. Ed è un cibo che, nonostante la buona volontà, non posso portarmi da casa perché a casa mia non ho gli armadi pieni di educatori, pieni di ore di sostegno, pieni di reti fatte di psicologi, di psichiatri e di équipe psicopedagogiche…e di esperti vari. E in certi casi è un bene non averceli negli armadi perché quando escono alla luce del sole sono capaci solo di scrivere in bella copia come si frigge una cotoletta. Di ricette ne ho le tasche piene.
Fermina Daza

5 commenti:

Serena Peterlin ha detto...

Premetto che non sarò affabulante. Leggo questo post e mi vengono in mente, per contrasto, quei commenti che girano sui social network nei gruppi-insegnanti. In particolare in quei "gruppi chiusi" in cui "si sta così bene tra di noi, abbiamo già tante critiche dal fuori".
Leggo questo post e vedo come un intervento a cuore aperto.
La metafora della cucina, la foto esplicita: il CONCRETO.
E mentre la scuola, in sè detta, sembra quasi, quando se ne parla in chat, qualcosa di genericamente funzionale al docente, qui, nelle parole di Fermina Daza, è sangue e calore che ci invadono tutti.
L'aula, i ragazzi, i bambini e le bambine, quello che loro portano a scuola dalla famiglia e dal mondo in cui vivono.
Quello che portano dentro di sé e verso di noi.
Tutto questo non è né oleografia né qualcosa di cui liberarsi una volta finito l'orario.
Tutto questo è qualcosa di cui occuparsi come persone.
E come persone di questo nostro tempo siamo circondati da strumenti.
Gli strumenti non sono soluzioni.
Lapalisse? E allora perché non dirlo?
Prendiamo la tecnologia informatica: ha ragione Fermina Daza, sappiamo che c'è, sappiamo che la usiamo. Non per questo possiamo concludere che risolverà i nostri problemi.
Ascoltate un dinosauro come me. Nella mia classe c'era la radio: un altoparlante che trasmetteva "la radio per le scuole." Ma la maestra ci leggeva i libri e parlavamo, parlavamo, parlavamo. Nelle mie aule di docente portavo i media elettrici: radio, tv, registratori, perfino un impianto stereo. Un percento di uso di media (e quante volte me lo chiedevano per "alleggerire" la lezione!
Poi abbiamo usato il pc, internet.
E "loro", i ragazzi, mentre il/la prof o il/la maestro/a si impegnano nell'uso del digitale.... digitano lo smartphone. Perché negarlo.
Chi ha seguito da sempre lo sviluppo del processo d'uso delle tecnologie NELLa didattica lo sa.
Non è vero che nihil sub sole novi. Anzi! Abbiamo nuovi problemi che non si pascono di vecchie soluzioni. Ma, ragionandoci sopra, non rischiamo che la soluzione digitale non sia altro che un vecchio, obsoleto schema applicativo mentre il problema madre resta, figlia altri problemi e i nostri bambini e adolescenti sono sempre più soli, problemantici e carenti di educazione?
Torno al punto: la scuola non può chiudersi in se stessa per star bene con se stessa. Se fa così non è scuola, è corporazione.
I bravi insegnanti lo sanno.
Fermina Daza lo sa e persone come lei lo sanno. Ascoltiamoli.
La scuola si apra e si ponga su un piano di dialogo serio.
Altrimenti chiudiamola, ma chiudiamola sul serio.
Grazie Fermina Daza: tu apri un processo amaro e faticoso, ma è quello della strada nuova.
A impanare e friggere sono buoni tutti. Ma abbiamo bisogno d'aria davvero fresca e nuova e non di aria fritta e rifritta.

Serena Peterlin ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Serena Peterlin ha detto...
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Serena Peterlin ha detto...

Ecco, io penso che non esistano né schemi, né esempi, né pratiche, né ricette buoni per tutte le stagioni. Non esistono esperienze ripetibili così come non esistono persone ripetibili.
Per un insegnante esiste solo (e scusate se è poco) una fondatissima e solida preparazione culturale che deve accettare di riscoprirsi e di sottoporsi a verifica quotidiana, un senso vivo della missione e una calda passione per il suo lavoro. Sulla mia preparazione professionale sono tutt'oggi pronta a mettermi in discussione e ad accettare verifiche; sul resto no.
E' stato questo che mi ha condotto a scrivere il mio libro (mi auto cito, ma sono in casa nostra e non imbratto le pareti di nessuno) "La mia classe non è. doc"
E' per questo che quel libro me lo sono autopubblicato e non ne cederei una riga a nessuno.
Nel libro ho scritto proprio di quel senso di quotidiano ritornare alla scoperta: ho continuato a preparare a casa lezioni e appunti cercando di mettere insieme dei percorsi per miei alunni e ho scritto schemi o ideato nuovi modi di interessarli e coinvolgerli. Ma poche volte ho potuto semplicemente applicare ciò che avevo preparato per loro.
Entrando in classe riconosco la tensione compressa creata da due ore di Informatica e Fisica o l’ansia sudata e tangibile per l’imminenza di un compito di Matematica atteso dopo di me: non ci si metta anche lei professoressa! Oppure l’euforia felice ma nervosa di un lunedì tracciato dai segni della domenica calcistica, o quella infelice e nevrotizzata dai diversi confronti con le famiglie, che proprio nei giorni di festa litigano e stressano i figli atteggiati a scocciata indifferenza. O semplicemente riconosco gli effetti di un prolungato festeggiamento, non proprio esente da eccessi trasgressivi.
Ma sono anche entrata a scuola e in classe non c’era proprio nessuno: fuga generale dal temuto ennesimo compito in classe della collega Sonaglini (bramosa come la lupa dantesca, ma di voti scritti e orali) per la verifica del giovedì.
Altre volte era una giornata no, e nient’altro e tutto il lavoro predisposto e che sulla scrivania mi era sembrato perfetto per essere tradotto in un fluido e interessante discorso mi è morto lì, sulle labbra, semplicemente guardandoli in faccia, perché nessun discorso, quella volta, sarebbe riuscito a passare se prima non li avessi lasciati esprimere per qualche minuto tra loro e con me.
Non l'ho considerato un tempo sprecato, anche è stato difficile far coincidere i loro tempi con il mio senso del dovere.
Però ho anche visto accendersi la luce nei loro occhi, e l’ho vista propagarsi da uno all’altro e mentre febbrilmente raccoglievo e annodavo i fili di discorsi tante volte iniziati e sospesi; ed ho percepito un interesse tangibile e definitivo.
E’ così che il senso dell’insegnamento mi ha ripagato, oltre ogni attesa.
(segue...)

Serena Peterlin ha detto...

(... segue)
Entro dunque in classe, e lascio che si stabilisca prima un dialogo, un rapporto, una dialettica e che pensieri e concetti si adattino e prendano forma su di loro proprio guardando le loro facce un po’ annoiate o inespressive, insolenti o sgomente. Incoraggio i discorsi smozzicati che nascono dalle loro domande, mentre le parole si compongono ad una ad una in quelle polverose stanze dove non sono solo le facce che negli anni cambiano; e dove non solo i capelli e gli orecchini, i jeans e i giubbini, i piercing e i tatuaggi, ma anche i gel e gli afrori non sono mai gli stessi. Né sono uguali le attenzioni e le distrazioni, l’ottusità o l’intuizione che mi costringono a ripesare e ripensare volta per volta lezioni e argomenti e a rivedere i tempi.
Così mi capita di attraversare i quartieri di Roma e di vedere una strada, un ponte o un palazzo antico, o di leggere un libro o un giornale o visitare una mostra o di riflettere per cercare di capire quello che accade nel mondo e di accorgermi che sto già cominciando, in automatico, a spiegarlo silenziosamente, dentro di me, a loro.
A loro che mi guardano ogni tanto come una matta e ogni tanto come una che pensa, che discute, che contesta e si impunta.
"Delle volte con queste sue metafore, prof… mi lascia senza parole", mi ha detto Alessio quando lo rimproveravo di trovare comoda la scuola fatta da chi insegna solo a memorizzare, ma senza costringerli a pensare, o apre davanti a loro un’autostrada dritta e senza pedaggio che non porta in nessun luogo; mentre proprio loro, perché giovani, dovrebbero pretendere il confronto (e magari anche lo scontro) che li metta in difficoltà, ma li conduca a cercare risposte in se stessi, a capire chi sono, magari anche a costatare la propria ignoranza: per lavorare duramente ad uscirne.
Non voglio usare i voti per costringerli a studiare; la mia utopia è anche quella della dialettica e della partecipazione; voglio che capiscano che non si possono permettere di rimanere ignoranti, di non essere curiosi per essere opportunisti.
Quante volte avrò fallito? Ovviamente molte, ma non credo di più di chi impugna il registro come un’arma e non sorride mai. E quindi perché non battersi per le proprie idee? Fa sentire più utili, più onesti e, con il permesso delle coronarie, più vivi.
Potrei vivere tanta parte della vita con i miei studenti e costringere i miei pensieri a non scorrere nella mente e gli affetti a non arrampicarsi nel cuore? Quello che cerco di far leggere non è solo un libro di testo, ma sono parole di autori che emozionano e modificano, anche se... qualche volta me sola.

Grazie Fermina di tenere accesa la fiaccola. Noi ci siamo.