chi sono

Sono Maria Serena, ho insegnato letteratura italiana. Oggi scrivo e sono qui per riflettere, dialogare raccontare. I miei interessi sono rivolti alla comune condizione umana, anche quella raccontata dalla letteratura. Vorrei partecipare alla costruzione di un pensiero nuovo e diverso, fondato su radici antiche, che riconosca uguaglianza e giustizia a tutti.

giovedì 19 luglio 2012

E lei chi è, prof ? Una storia di primo giorno scuola


dall' Antologia - Storie di didattica

http://www.storiedididattica.it/index.php/descrizione-del-progetto









partiti in 33 in terza, i superstiti in quinta
la storia

E lei chi è, prof ? 2
Primo giorno di scuola. Siamo in un Istituto Tecnico per Informatici. Entro nell’aula, densamente abitata da trentatre alunni maschi, saluto guardandoli e dico che sono l’insegnante di lettere che li seguirà nel triennio. Chiedo ai ragazzi della nuova classe se vogliono farmi qualche domanda. Ne ho ascoltate molte nella mia lunga storia di prof e non mi sorprendo facilmente,
Negli anni ’80 mi chiedevano: quanti compiti in classe, interrogazioni e giustificazioni? li avrei costretti a leggere libri?
Dai primi anni ‘90: larga o stretta di voti? durante le interrogazioni potevano tenere il libro aperto davanti ?
E’ stata poi la volta di questioni più personali: il voto di laurea? e quello delle elezioni politiche?
Negli ultimi tempi mi hanno chiesto se fossi contraria proprio a tutte le sostanze e le droghe, fumo compreso, perché la scuola non si occupi di educazione sessuale e se li avrei portati in gita. Anche le domande esternano le tendenze giovanili in passato taciute? Forse sì.
Oggi è, dunque, di nuovo primo giorno di lezioni: li guardo, mi guardano ed attendo. Intanto mi chiedo: come sarà questa classe?
L’impegno e la fatica dell’anno che inizia, infatti,  dipenderà in gran parte proprio dalla situazione della classe che costituisce, e non solo nella mia scuola, il primo punto dell’ordine del giorno nei verbali dei Consigli che ci attendono.
Mentre li guardo penso a quello che ci diciamo spesso con Gabriella, la mia collega di Matematica. Prima di parlare di programma da svolgere dobbiamo capire chi sono. E non è sufficiente vederli nel comportamento che tengono a scuola e decidere se attualmente “sono/non sono finalmente scolarizzati”.
Certo, se andassi in Segreteria Alunni potrei consultare le loro schede e ripercorrere il loro curriculum scolastico dalla primaria ad fino ora. L’ho fatto a volte, ma le schede personali dell’alunno hanno raccontato ciò che la scuola ha voluto vedere o è riuscita a capire degli attuali adolescenti durante un percorso finalizzato all’imprescindibile giudizio, della valutazione.
I ragazzi che ora mi stanno guardando non sono solo degli scolari, e nemmeno sono nati con lo zaino sulle spalle. Vivono in un contesto complesso: in famiglia, per strada, sugli autobus o la metro, nei loro gruppi o compagnie di muretto, discoteca, baretto, palestra, e così via. Sono ancora adolescenti, a volte con fin troppe esperienze già provate.
Come si relazionano, fuori da quest’aula, con gli adulti? Come si mostrano in tutti quei luoghi e situazioni dove è così facile sentir dire “ma cosa gli insegnano a scuola?”

Molti pensieri mi stanno attraversando la mente quando, finalmente, arrivano le loro prime domande:

-Per che squadra tifa? per la Roma? e le vede le partite?
Sono davvero spiazzata, ma  è sceso un silenzio sospeso che mi affretto a colmare.
-Sì, vedo qualche partita e il calcio mi piace pur non essendo tifosa.
(Mi sento ridicola a rispondere così, con i miei gerundi e la sintassi da prof di lettere, ma non voglio cedere).
- Ma non fa il tifo? E che si guarda?
Un po’ a disagio rispondo :
- Beh a volte guardo gli incontri internazionali…-


Dire la verità è sempre meglio; loro mi fissano scettici ed hanno un po’ ragione. Il calcio, per loro, è la Roma.
Avrei dovuto, entrando nell’aula, non solo guardarli, ma vederli meglio. Le sciarpe giallorosse al collo (nel sole ancora estivo di un primo settembre romano), gli zaini e anche i caschi, i diari, le scarpe, costellati di lupe e sigle disegnate con i pennarelli: tutti genotipi prodotti dalla curva e dal tifo.
Perché non ci ho pensato e non ho aperto io il dialogo su quel tema a loro così congeniale?
Salutandoli sorridendo avrei potuto dire: “Niente laziali qui dentro, vero?” o qualcosa del genere, e sarei andata liscia.
Ora devo ricucire, e non mi interessano le frasi che direbbero i colleghi e le colleghe autorevoli, quelli ascoltati in presidenza: “Non dargli spago! L’insegnante non è un amico, non deve dare confidenza! Se gli dai un dito ti prendono il braccio.”
Faccio l’appello, man mano li chiamo ed iniziamo a parlare; l’ora passa veloce mentre scopriamo, reciprocamente non senza prudenza, le nostre carte.
Suona la campana; scattano via dai banchi come molle e si riversano a valanga nel corridoio. Uscendo, M. alza il coro (come dicono loro):
"Nel cervello soltanto la Roma!", eccitati gli altri si uniscono con toni gutturali ed altissimi, "Il mio cuore batte per te/ per il mondo seguendo la Roma/ nessun mai t’amerà più di me".
Il corridoio risuona di canti dalle parole ingenue, urlate con foga primitiva. Ragazzi. Come non riflettere su una loro passione così assoluta? L’apparenza restituisce un’immagine di giovani trincerati in una fede senza religione, un credo senza ideologia per cui contano solo il rito e il gesto che, non compreso, appare brutale e istintivo. Il tifo è la Roma che non si discute; in seguito me ne racconteranno: vanno allo stadio tutti insieme, ma quasi non vedono la partita; passano il tempo a urlare, cantare, a lanciare slogan, a svolgere gli striscioni, a fumare. A volte le provocazioni, gli scontri, qualche manganellata sulla schiena.
Il tifo calcistico: aggregatore di passioni che li spinge a scavalcare le reti di recinzione per conquistare un posto in curva.
No, non è sbagliato chiedersi dei perché.

E’ il cambio dell’ora: le prof-colleghe delle classi adiacenti sciamano, verso le loro classi. Mi sembra che abbiano espressioni po’ ostili, sono costrette a passare accanto ai miei studenti, il corridoio ne è invaso, ma si affrettano e li evitano accelerando il passo: le braccia strette intorno al corpo fasciato dal tailleur ancora estivo, la collana di corallo legato in oro, lo sguardo accigliato, la bocca serrata.
Ah, il linguaggio del corpo (insegnante).
Il gruppo non diventa branco né gregge, ma si apre mentre loro ridono strafottenti quasi invitando le insegnanti che passano al confronto dispettoso anche se infantile.
Il gridare insieme, che a tanti riti sociali appartiene, qui stabilisce il contatto; il gesto, il canto, gli slogan comuni concretizzano e concludono una esigenza fisica di marcare la presenza, di segnare l’identità di occupare un spazio, la scuola, che appartiene soprattutto a loro e sul quale vorrebbero imporre o almeno negoziare le regole.
Non mi sembrano animati da un’intenzione aggressiva; giocano un gioco ruvido e disinibito, sfrenato e chiassoso: irregolare rispetto alle normali usanze imposte dalle istituzioni. Una sfida alla disciplina, tradizionalmente intesa, non compresa né accettata. Ha ragione Gabriella; dobbiamo conoscerli.

Eccoli dunque, ora sono i miei ragazzi: età sedici anni e per almeno dieci la scuola si è variamente interessata a loro intrattenendoli, classificandoli, scrivendone le schede, valutandoli, a volte annoiandoli, selezionando i più dotati, ma solo di rado riuscendo ad emozionarli.
Cercherò di prendermene cura, il primo passo sarà capirci dialogando piuttosto che somministrandogli un test d’ingresso. Loro mi hanno chiesto, sia con domande esplicite sia studiando le mie reazioni alla loro performance “ma lei, che si presenta qui nel territorio della nostra classe, che ci metterà voti, che ci assegnerà compiti e ci darà regole, lei chi è prof?
Domanda legittima, no?