chi sono

Sono Maria Serena, ho insegnato letteratura italiana. Oggi scrivo e sono qui per riflettere, dialogare raccontare. I miei interessi sono rivolti alla comune condizione umana, anche quella raccontata dalla letteratura. Vorrei partecipare alla costruzione di un pensiero nuovo e diverso, fondato su radici antiche, che riconosca uguaglianza e giustizia a tutti.

mercoledì 15 settembre 2010

LA CULTURA DEL FAZZOLETTO di Fermina Daza

L’ uomo teme la libertà più della peste.
Esso si coccola e si consola pensando che delle forze più grandi lui lo abbiano privato della libertà. In realtà l’uomo non desidera affatto essere libero.
Vi è un aspetto inquietante in questa cultura del fazzoletto, un aspetto che sfugge all’attenzione dei più. La nostra civiltà è il frutto di grandi lotte ideologiche, e non solo, a favore della libertà … Bene, si rinuncia più facilmente alla libertà se non si è combattuto per essa, si rinuncia alla libertà perché è troppo faticoso mantenere perennemente attivi i meccanismi di disinnesco delle bombe occulte ….
E questo meccanismo di disimpegno morale è tipico della generazione dei padri, di quei padri che si son visti consegnare un dono ingombrante e non richiesto, di quei padri che hanno operato nella seconda metà di un secolo, il XX, breve, meschino e guerrafondaio! E questi sono i padri che hanno venduto la primogenitura per un piatto di lenticchie, e questi sono i padri nelle cui mani è passata l’inarrestabile declino dell’Occidente, e questi sono i padri della nuova generazione, questi padri siamo noi…
La generazione che da noi discende vive la libertà senza conoscerla, facendosela scivolare addosso, come un vestito scontato, un’uniforme che tutti massifica… Non vi è dimensione personale in questa libertà che sa di moda effimera, non vi è dimensione umana in questa libertà che si specializza nell’essere “liberi per” e non nel “liberi da”.
Se la libertà è un mare, i nostri figli vi sono immersi senza averne alcuna consapevolezza, i nostri figli non hanno mai provato l’ebbrezza del primo contatto con le onde, sono semplicemente nati in mare. E di questo mare non conoscono i confini , non sanno nemmeno che nome abbia, nuotano e ancora nuotano senza fermarsi mai, ora incontrandosi ora disperdendosi, liberi solo di nuotare ma non di conoscere ….
Liberi solo di fare tutti le stesse cose nel mare senza nome…

5 commenti:

Serena Peterlin ha detto...

Il fazzoletto copre, asciuga, si sventola per salutare, si fa bandiera; e nasconde. Ci si immerge il volto per simulare commozione o sorrisi ipocriti.
Hai sollevato il fazzoletto Fermina, e ne hai "sfrondato gli allori".
Io ricordo con passione i fazzoletti al collo, quelli che valevano ben più di una bandiera.
Ma questo fazzoletto di cui parli non è che la bandiera dell'individualismo o, come meglio dici tu, del "disimpegno morale".

Ti racconto un flash di cronaca di vita colto al volo questa domenica. Una mamma abbastanza giovane stava per entrare alla messa, con lei una fanciulletta (al massimo di biennio) minuta e con gli occhiali da vista, i capelli biondi dritti. Accanto a loro un'altra donna, un'insegnante come ho capito dal dialogo. La mamma parlava a raffica rivolgendosi alle due ma indicando la figlia: "Le ho già comprato i libri,si deve impegnare da subito! Assolutamente! Quest'anno non voglio ricevere note, non posso subire tutto quello stress dei debiti!"
La fanciulletta fissava il vuoto.
Mi sembrava di sentire il suo pensiero: "Tuo, mamma lo stress?Tuo? E poi ti lamenti se mi chiudo in camera mia, se mi isolo con l'ipod, se sto sempre in chat con le amiche?"
Ho pensato a questo episodio leggendoti, Fermina.
La tua analisi va molto oltre e più nel profondo, ma quella fanciulletta-simbolo e quella madre (col fazzoletto tra naso e occhi??) mi sono rimaste nella mente.

Andreas Formiconi ha detto...

Grazie, Fermina
Andreas

Loretta Bertoni ha detto...

"Liberi solo di fare tutti le stesse cose nel mare senza nome…"

E allora diamoglielo un nome Fermina, come dice anche Serena: IPOCRISIA. INDIVIDUALISMO. INTOLLERANZA.
Eccola la scuola "delle 3 i" tanto declamata...

Serena Peterlin ha detto...

Il fazzoletto appare non solo in mano a singole persone, ma ad intere categorie.
L’apparato scolastico, ad esempio, si difende e si arrocca su posizioni che non sono più difendibili.Si arrocca e si difende anche da situazioni che deve gestire senza averne gli strumenti (disagio, integrazione, inserimenti, problematiche gravi della condizione giovanile o della salute degli studenti)
La scuola, che è stata a lungo considerata un luogo deputato dell’apprendimento, dell’educazione e del sapere o forse di saperi, è stata un’opportunità ambita da chi non aveva mezzi per frequentarla, è stata una conquista: l’abbiamo chiamata diritto allo studio. Ma come si applica questo diritto?
Da qualche anno non si apprende più dalla scuola soltanto, l’educazione è sempre più condizionata da modelli, tutti possono frequentarla e non c’è bisogno di conquistarla.
Gli insegnanti riflettono su questo?
Le famiglie sempre più non dimostrano rispetto per il lavoro dell’insegnante che, dal canto suo diffida dei genitori.
Ma entrambi (genitori e insegnanti) dialogano sulle reciproche difficoltà? e sono in grado di affrontarle senza strumenti adeguati?
Metto sul tavolo una ipotesi: ciò che la scuola fa e produce ci interessa tutti (più o meno come per la Sanità, i servizi e così via). Se sbaglia la sanità ammazza parecchie persone. Se sbaglia la scuola ammazza il futuro.
E’ possibile mettere le carte in tavola? E’ possibile lanciare una liberissima discussione aperta a tutti su questi temi? Anche se non lo facciamo la corsa proseguirà.

Serena Peterlin ha detto...

@ Fermina: Tempo fa scrissi qualche riga di post, e finalmente l'ho ritrovata, su un argomento collaterale: l'aggiungo qui a commento:

Oggi la tastiera va a scrosciare sulla generazione - genitori.
Sulla generazione studenti & figli si parla tanto da sfinire anche la tastiera più ribelle.
Sui genitori, categoria multi-generazionale onnicomprensiva e destinata alla realizzazione del sé si parla un po’ meno.
Di solito se ne parla per stabilire, dall’alto dei tacchi 15 di Parietti e delle autorevoli tette parlanti di qualcun’altra Belen, oppure dalle basettone ripitturate di fresko di qualche immarcescibile semisplendido sessantacinquenne pseudo psicologo, che sì è importante realizzare se stessi ed è prioritario essere felici con sé, sennò ci si ammala, e che per crescere è giusto attendere il momento giusto per sé.
E degli altri chissene.
Tastiere non vi allarmate.
Non sto proponendo un modello anni 50.
Ma proprio no.
Anacronistici e legnosi quegli anni.
Sto scrosciando su questo enorme ESSERE SÉ STESSI.
E sono alla ricerca di una spiegazione.
Essere se stessi significa mettersi la vita sulle spalle e la strada tra i piedi, significa tener presente che ci sono anche le altre persone oppure significa mi faccio i c… miei e me ne f… di voi?
Significa sentirsi parte di una realtà o usarla?
Significa, per usare l’immagine di una bella creatura metaforica e naturale, che ci ha tenuto allegra compagnia ieri, covare o bersi l’uovo altrui?

Che ne dici, ci azzecca col tuo post?