chi sono

Sono Maria Serena, ho insegnato letteratura italiana. Oggi scrivo e sono qui per riflettere, dialogare raccontare. I miei interessi sono rivolti alla comune condizione umana, anche quella raccontata dalla letteratura. Vorrei partecipare alla costruzione di un pensiero nuovo e diverso, fondato su radici antiche, che riconosca uguaglianza e giustizia a tutti.

lunedì 1 aprile 2024

LA GUERRA NON VINCE

Non vinceranno 

  (un disegno di Mary mia nipotina)


Loro non vinceranno.

Alla fine non sarà la loro brutale violenza 

non saranno l’orgoglio e la furia

Non saranno il disprezzo, l’irrisione e l’arroganza.

Non l’omicidio. Effimeri trionfi del lutto.


Appaiono, morti come spettri,

fetidi fantasmi della sopraffazione

Caino di fratelli, no non dureranno.


La vita li fugge 

ed il tempo ne tramanderà

come sempre

solo l’ignominia e la vergogna.


Non vinceranno.

sabato 30 marzo 2024

L'inganno malefico della "deterrenza"


Penso a voi giovani che non avete avuto l'eredità che molti di noi, oggi anziani, hanno ricevuto da coloro che avevano la vostra stessa età durante la dittatura che in breve tempo che li trasformò da cittadini in carne da macello impiegati su vari e sciagurati fronti bellici.

Probabilmente è anche per questo che non avete sentito raccontare, con orrore, dai vostri genitori che lo slogan (tratto da un detto latino ecc ecc) che oggi ci tocca "autorevolmente" riascoltare era uno degli slogan preferiti del signore del balcone prima incaricato e poi licenziato da sua maestade a sua volta in fuga-esilio .

"Si vis pacem, para bellum". Dicevano. Che fregatura. Che inganno dannato.

Orribile da sentire ancora. Uno slogan volgare, ignorante, retrogrado, una pessima propaganda che si sperava non dover più subire.

Ma oggi è così.

Ignoranza genera violenza. Non c'è altro da dire.

Ignoranti e violenti sono un unicum.

Poveri noi che lo abbiamo ereditato, ma ancor più poveri voi non-pensanti che ci credete e sguazzate illudendovi che sia un gioco da uomini mentre è uno sport da subumani.

Morire non è un gioco.

mercoledì 5 aprile 2023

Dibattiti politici in tv - LA GRANDE FARSA

 Passerelle. Sceneggiate. Spettacolo. Recite con soggetto.

Infatti sono animati da personaggi che recitano, quindi rappresentano una pseudo realtà: scene, atti unici, dialoghi, cori o monologhi ma tutti esclusivamente diretti, orchestrati, organizzati con tanto di copione e ruoli.

Ho smesso di pensare che propongano idee, opinioni, riflessioni.
I protagonisti sono simili, in peggio, alle maschere della Commedia dell'Arte che, almeno, improvvisavano, pur rimanendo nel ruolo del personaggio. In peggio perché più brutti e perché non rischiano i fischi ma stanno a contratto.
Potremmo almeno noi smettere di considerarli con serietà ed attenzione.
Ma penso che ci riusciremo in pochi perché anche il telespettatore è ormai personaggio che recita e, purtroppo, non riesce a smettere.
Il telespettatore infatti è membro che fa parte della rappresentazione e ne è attore passivo.
Il telespettatore, fateci caso, si convince di essere intelligentemente critico perché invece di guardare un film o uno spettacolo leggero o serio qualsiasi (documentari, musica, Barnaby et similia) vede Gruber, Floris, Berlinguer, Fazio, Vespa (!) , Porro o Formigli e potremmo continuare elencandoli quasi tutti.
Invece no.
Non è intelligentemente critico è passivamente credulone, chiedo scusa, pesantemente dipendente. Ritiene in buona fede di stare facendo di tutto per informarsi, invece ne è formato e conformato.
I conduttori? Fanno solo il loro lavoro.

giovedì 16 marzo 2023

Compiti, perché no?

A scuola: Basta compiti? Compiti no? Compiti sì?

 A proposito di un post di Gianni Marconato su fB.
Se si obiettasse che gli alunni (di qualsiasi età) stanno già molte ore a scuola e che quindi una volta uscitine è giusto che siano liberi da compiti vorrei far notare che la fase di lavoro individuale potrebbe essere incoraggiata anche nell'ambiente scolastico. Questo non significa semplicemente intimare il "vietato copiare". Vorrei invece significasse che sarebbe necessario incoraggiare gli studenti, anche piccolini, a lavorare individualmente anche se per un tempo certamente più breve di quello dedicato ad altro lavoro o, per dir meglio, un altro compito da eseguire a scuola. 


Aggiungerei una ulteriore considerazione: oggi i ragazzi sembrano sempre meno interessati (o capaci?) di avere gusti, pensieri, tendenze personali. Oggi, anche per la potente influenza di tutti i media anche gli adulti veleggiano verso il pensiero unico, le comuni tendenze, gusti standardizzati e opinioni trainanti. Insomma si è tutti indotti verso la passiva accettazione e condivisione di un comune sentire che toglie tantissimo perfino alle qualità personali, a possibili sviluppi di pensieri originali.

Certo fare i compiti non risolve tutto questo.

Ma potrebbe essere un piccolo segnale. 

venerdì 27 gennaio 2023

Nel nome della memoria

 Chi, come me, ha avuto una famiglia (e già questa è un’eccezione) che ha trasmesso i valori, di cui tanto si parla e poco si pratica, il messaggio del tragico dolore per la vergogna dell’olocausto è stato una costante della vita e un messaggio costante nella memoria, nel suo nome.

Le ricorrenze sono fondamentali per trasmettere sempre quel messaggio e rinnovare quei valori.

La viva speranza è che non se ne faccia un ossessionante baraccone mediatico e politico che serva ad acchiappare consensi.

Se accadesse questo oltre a infangare un dolore che deve essere di tutti, e nostro il lutto, si ritornerebbe a dar spazio e voce a quelle infami logiche di propaganda, nonostante le eventuali buone intenzioni.
Infatti se tutto nacque da una disumana, corrotta e abietta ideologia fu proprio l’infame propaganda a rendere possibile che quel dolore, che poteva essere condannato e rifiutato da tutti, sia divenuto reale tortura, devastazione di vite e morte atroce di milioni di esseri umani scientificamente perpetrata.
Ed è proprio quando l’atrocità dei delitti può diventare, e senza scandalo, addirittura “legge” di uno stato che l’umanità cede, e lo ha fatto, lo scettro ai demoni più crudeli e sghignazzanti.

Mi verrebbe da dire il solito “giù le mani da…” ma sarebbe comunque un seme di moralismo supponente e negativo che si deve fuggire.


domenica 5 giugno 2022

Di #SCUOLA chi parla?

 

da ieri, di ieri?

La quaestio non mi sembra sia : può parlar di #scuola chi scuola la fa, chi entra ogni giorno nelle aule, chi ha anni di servizi eccetera.
Mi sembra sia invece che ne possa parlar chiunque, partendo dall'idea o l'ottica che l'opinione sia diversamente calibrata.
Se parlo di ospedali, di cantieri, di politica, di ferrovie, di commercio non devo essere necessariamente medico, ingegnere, senatore, capotreno o direttore di un supermercato.
La scuola è tanto e provo a dirne qualcosa.
È ambiente di relazione, è formazione, è società, è fondazione di futuro, è luogo di lavoro e vita, è trasmissione e ricezione, è dialogo, è progetto di pensiero critico, è mappa per essere cittadina e cittadino. È esercizio di diritti civili e sociali.

E poi ci sono i #contenuti. Su quelli si tratta e disegnano itinerari.
Ma se ne può parlare, ne dobbiamo parlare, anche da posizioni di contrasto.

Anche dal mio scranno dinosaurico.
E sempre non dimenticando a casa il viatico: ironia e affetto, impegno e passione.

martedì 12 gennaio 2021

Non tutta la Dad viene per nuocere

 

Se fossimo capaci di essere più sensibili e vicini alla situazione dei nostri giovani studenti delle Scuole Medie Superiori diremmo loro che questa dura ed inedita esperienza può essere comunque sostenuta e affrontata con dignità, diremmo loro di valorizzare l'anomalia (chiamiamola così per semplificare) della scuola in #Dad, e dovremmo sottolineare che non si tratta di una scuola di serie B o C, ma che dipende anche da loro, peraltro ragazzi solitamente smaniosi di dimostrare d'essere adulti, estrarre tutto il buono possibile dalle lezioni a distanza e dal lavoro dei loro insegnanti. D'altronde abituarsi a volgere al meglio le situazioni che la vita ci propone, anche quelle eventualmente avverse, negative, fastidiose è un'ottima pratica per vincere la tendenza a uno sterile vittimismo e che sarà utile per tutta la vita. (1) La Dad, infine, non è come essere sottoposti agli arresti domiciliari. Semmai è evasione dall'isolamento stesso.

Dovremmo ragionare con loro sul fatto che imparare a studiare in autonomia è imparare la libertà e che per la vita che li attende in futuro l'esercizio dell'autonomia è fondamentale.
Aggiungeremmo che la nostalgia che provano oggi per la scuola in presenza,

per la socialità con i compagni, per l'essere a contatto con gli insegnanti si trasformerà in entusiasmo e comunicazione ancora più intensa quando tutto questo, grazie al vaccino, finirà.

Il danno prodotto negativizzando la Dad lo fanno non solo i media televisivi, sovente incompetenti, e i giornali che speculano sulle nostre frustrazioni comuni e in particolare quelle di chi ha meno strumenti per reagire. Infatti un danno analogo deriva da tutti gli adulti, e quindi anche le famiglie che, forse per non avere strumenti di mediazione idonei, continuano a mostrarsi scontenti e ipercritici di quello che la scuola oggi offre ai ragazzi delle superiori.
Purtroppo nemmeno la Ministra in carica al Miur, che cita gli studenti chiamandoli "i miei ragazzi" dimostra apprezzamento per il lavoro che molti docenti progettano, realizzano e mettono in atto per la scuola.
(1) Su questa forma di risposta positiva e costruttiva a situazioni difficili o avverse si è espresso benissimo il professore Andreas Formiconi in suo intervento, che troviamo su youtube a proposito di spremere valore dai contesti online in La Scuolina: da scuola di prossimità a scuola online

sabato 14 novembre 2020

Contro la #scuola_migliore in classifica

 

Vita di scuola

Non mi ricordo nemmeno quando sia iniziato questo ritorno all'oscurantismo pedagogico. Mi pare da Moratti. Certo Gelmini ci mise sopra una quota allucinante di genuina ignoranza.

Penso proprio che il ritorno all'oscurantismo sia iniziato da quando si è cominciato a diffondere un virus (usiamolo questo termine) : quello del persuadere perfino gli insegnanti che la scuola dovesse esaltare il cosiddetto merito e nel contempo, ma forse proprio per questo, essere diretta come un'azienda. E via coi ds.
Peccato che una Azienda lavori e generi prodotti, di solito conformati a un modello, mentre la Scuola deve lavorare in funzione sociale e di crescita di esseri umani.
Naturalmente so bene che questa definizione è imperfetta.
La scuola è relazione, la scuola è dialogo.
Se non ascolti non insegni.
Se non ascolti non impari.
La stupida e classista direttiva di valutare secondo metodi oggettivi genera risultati non solo scadenti, ma addirittura nocivi.
Gli allievi, di qualunque età, non sono prodotti da sfornare conformati a modelli (come carburatori, abiti, profumi, pagnotte, uova o navi mercantili).
Gli allievi sono persone, sembra banale?
Ma se non si vuole morire di inutile noia reciproca è necessario vivere la scuola nella convinzione che ognuno insegna/impara non in modo oggettivo (che poi non significa proprio niente!) ma in modo diverso. Fratelli diversi.
Solo che questo ragionamento cozza contro la prassi, contro il conformismo, contro il classismo.
E soprattutto contro la meritocrazia.
E siccome questo modello sociale, contro cui non smetterò fino all'ultimo respiro di resistere, chiede non vivacità e pensiero, ma invece conformismo, passività, abitudine e quiete sonnolenta della ragione, allora questo modello sostanzialmente classista e antidemocratico trasforma i cervelli pensanti in tubi digerenti e consumatori.
Chi consuma si annoia.
Chi costruisce si diverte. Dunque vietato costruire!
Il divertimento, infatti, non lo possiamo decidere noi.
Dovremmo tutti odiare la scuola che vince classifiche (ma a quale prezzo?) e viene valutata (ma come poi?) e classificata come la "migliore".

mercoledì 11 novembre 2020

Andreas Robert Formiconi: Spremere valore dai contesti online

 Andreas Formiconi : spremere valore dai contesti online


Un video dove il prof. Andreas Formiconi  dimostra, riferendo su esperienze di pratiche realizzate da straordinari docenti, come sia possibile realizzare la DIDATTICA DI VICINANZA e il Tirocinio  anche in tempo di pandemia, restrizioni, isolamento.


" smettiamo di lamentarci o polemizzare sul niente, ma rimbocchiamoci le maniche"
"è una questione di abbattere gli schemi mentali, andare al di là dell'ovvio" 
" cosa ce l'ho a fare questo chilo e mezzo di sinapsi nella mia scatola cranica? Le devo usare!"

"ho colto  l'occasione, spremere valore online è un sottoinsieme di spremere valore da qualsiasi avversa condizione. E' un abito mentale che  fa la differenza tra chi sopravvive e chi soccombe, fa la differenza tra chi il mondo lo vuole costruire e chi invece sopravvive al minimo."





martedì 29 ottobre 2019

di scuola e non scuola (versi maledetti)


Dice il consiglio: "L'alunno non studia
vuol vivacchiare godendo l'accidia
e sceglie solo tre o quattro materie
prendendo in giro le persone serie..."

(-Serie...de che?- io borbotto smagata
- Quella anzianotta e un po' sciroccata
che sbevazzava alla gita vorrebbe
essere seria... e per chi? e potrebbe

esser creduta un'austera insegnante?
O... il sussiegoso con l'occhio sporgente
che si trascina fingente l'ardore
e che ricicla magliette al sudore?-)

"Come obbligare l'alunno col debito
e far pagare il reato scolastico
a ripassare per tutta l'estate
con adeguato rigore e frustate?"

"Ma è molto semplice" s'alza compunta
(tailleur bordato e scarpette a punta)
"Ai miei studenti impongo abbuffate
di scienza tecnica tutta tritata;

se non la sanno tutta a memoria
tutti in cortile a trovare cicoria!
al cinquantesimo, e passa, ripasso
purga e citrato fino al salasso.

Si riconoscono i miei alunnetti
occhi ammosciati, ma bei concetti!"

(Alzo i miei occhi al cielo imploranti
-....e i miei abbronzati, ma maleodoranti...-)

sabato 17 febbraio 2018

La meraviglia e l'infanzia



La ricerca dell'ape tra i fiori di tiglio

 La meraviglia è un dono innato nell'infanzia, accoglierla e rispettarla significa anche distendere lunghe tracce di luce che illuminano il cammino del sapere che il bambino ha diritto di percorrere sostenuto dalla nostra fiducia. Tutto il resto è solo opaca burocrazia.

L'insegnante non ferma al casello


Con l'enfatizzazione della meritocrazia la scuola è di fronte a qualcosa di più di una sfida, è di fronte al confronto con vincoli imposti e che incidono anche sui criteri di valutazione, ma soprattutto determinano un  mutamento radicale dei suoi obbiettivi educativi che non sono mai giudicare per la vita, ma porsi momento per momento, tappa per tappa il problema di confrontare ciò che ha prodotto verso i suoi studenti con ciò che gli studenti restituiscono in termini di apprendimento.
Infatti sollecitando gli insegnanti ad adottare criteri meritocratici si va a modificare le finalità stesse dell’educazione tra le quali non vi è il misurare il merito ed attribuirgli un potere, ma lo stimolare e far crescere quelle doti che, in un tempo successivo a quello scolastico, possono costituire alcuni degli elementi che compongono il merito del singolo.
Le conseguenze ricadono anche sul profilo professionale dell’insegnante che, a questo punto, dovrebbe  discutere, riaffermare e riappropriarsi della propria specificità diversa, specialmente in considerazione delle partizioni delle fasce di età della scuola primaria e dell'obbligo scolastico, dalle logiche delle strutture produttive del mondo del lavoro. Insomma insegnare è insegnare a percorrere itinerari e a riconoscere i segnali, non è fermare al casello per esigere un pedaggio.

C'è crisi nell'Educazione?


È arrivato il tempo, se mai ci sia bisogno un tempo speciale per questo, che si torni a ragionare sul ruolo dell'educazione e della scuola, e dunque di genitori ed insegnanti.
È necessario ed urgente interrogarsi sull'efficacia dell'azione educativa rivolta alle giovani generazioni. 
Se tanto spesso parliamo di tragedie, a trecentosessanta gradi, che riguardano i nostri adolescenti e giovani, è anche vero che tutti loro, fino a prova contraria, sono pur sempre nati da genitori e, da non dimenticare, sono passati nelle nostre aule scolastiche.
Io penso che dobbiamo assolutamente ricominciare a pensare in termini di autocritica; e non per chiederci se avremmo dovuto dare di più, ma per chiederci se, almeno la scuola, non avrebbe dovuto adottare linee diverse.
Mi riferisco particolarmente alla scuola perché la famiglia riveste anche un ambito privato.
È pur vero che la scuola è stata in un certo senso depotenziata; ed un'indicatore di questo potrebbe il basso livello di stima e rispetto, a troppi livelli, con cui si parla degli insegnanti o ci si riferisce a loro.
Ma tornando al tema: siamo di fronte all'amara constatazione che i nostri bambini, ragazzi e giovani sono nati, cresciuti e crescono sotto il segno dei media. Sono i media che, in vario modo e in misure importanti, li crescono, li influenzano, li plasmano addirittura.
Siamo inoltre di fronte all'evidenza che alcool, fumo, droghe e comportamenti violenti o pesantemente pericolosi o trasgressivi sono familiari alla nostra infanzia e alla gioventù che cresce; e influenzano ormai la vita sociale, affettiva, personale.
Fermiamoci. Riflettiamo.
Non saranno certo la scuola del merito o la cosiddetta buona scuola né la slabbrata famiglia amicale che risolveranno questa realtà o apriranno una via di uscita
A meno che non si voglia attendere che accadano catastrofi peggiori dobbiamo fermarci e esaminare a fondo i fenomeni della realtà giovanile che ci circonda.
Già si spara per le strade e per le strade si pestano i coetanei o si cade preda degli spacciatori; non voglio nemmeno pensare a cosa possa accadere a breve, sempre che già non accada, nelle scuole.
Le sempre più frequenti violenze contro i docenti sono già sulle pagine delle cronache.

giovedì 21 maggio 2015

Io non mi vergogno

Considerato quello che quotidianamente accade nel nostro paese, e  penso non abbiamo bisogno di elencare esempi recenti, ci sarebbero molte buone ragioni per invocare che scenda un manto di vergogna sui responsabili. Sì su di loro.
Ma proprio per questo io non mi vergogno e non condivido la vergogna. Me ne chiamo fuori dopo una vita che è ed è sempre stata di personali battaglie, spesso perse perché non condivise è vero, ma che consentono di non lasciarmi ammucchiare nella massa pecorile che giudiziosamente e accortamente sceglie ed ha sempre scelto il cosiddetto  male minore, che ha fatto e fa spallucce, che ha sempre detto e dice che non si può far altro.
Non è così: ogni nostra azione quotidiana può essere azione di semina per il futuro e per cambiare la realtà.
Chiunque semina sa che ci vuole tempo. Specie se si è in pochi.
Questo non significa che si smette di seminare, di pensare, di dissentire.
Questo non significa che ci si lascia omologare e soffocare dal conformismo. E non significa che non ci resti altro che la nota tattica delle tre scimmie che non vedono-sentono-parlano.
Siamo persone e non scimmie. Uomini fummo ed or siam fatti sterpi fa dire Dante ai suicidi: e non è forse un suicidio civile arrendersi, tacere, annuire storcendo le labbra, forse, ma senza affermare anche con i fatti una diversa e opposta convinzione?
E proprio per queste ragioni io dico che mai e poi mai, anche se il nostro navigare fosse solitario e con piccioletta barca, anche se la nostra fosse semplicemente una posizione coerente solo con la propria personale coscienza, mai bisogna lasciarsi andare verso la schiera di chi si vergogna in conto terzi, e tanto meno lo deve fare chi, pur eseguendo i riti inevitabili imposti da un minimo di convivenza e sopravvivenza alla routine,  continui ad avere un pensiero, una parola ed un cuore liberi.
Quelli che si vergognano godono e, sotto sotto, si compiacciono tra sé e sé della acquietante remissività impotente e giustificante che li fa apprezzabili ai molti; il tutto en attendant una redenzione che altri (come sempre) eseguirà, se il fato lo vorrà, anche per loro. E allora siano loro a vergognarsi.
Io no, io non mi vergogno.

giovedì 16 ottobre 2014

Per il futuro


Coltiva il futuro

Non perderne memoria
ma nutrila e coltiva
ogni germoglio sano
di queste nostre piante;
pota i succhioni infidi
che rubano la linfa.
Mantieni sano il frutto.

lunedì 22 settembre 2014

Merito e utilità del far scuola


Se è vero che sbagliato dire solo no e
rifugiarsi nel passato è anche vero che innovare dovrebbe significare (provo a definire) fare ricerca per confutare, dove ci siano, gli errori e proporre nuove soluzioni, strade ed idee.
Nell’ambito educativo e dell’istruzione scolastica non possiamo dire solo no al merito e alla meritocrazia, ma dobbiamo pur riconoscere che una selezione di tipo meritocratico non è, di per sé, né innovativa, né uno strumento per insegnare/imparare meglio, né per educare; al massimo potrebbe esser considerato uno strumento per vagliare e selezionare in base ad un solo criterio; quello, appunto del merito.
E tuttavia dicendo così siamo ancora in ambito molto generico.
Infatti se non definiamo cosa sia merito e cosa (non meno importante) il demerito stiamo già affondando nella palude delle parole dette a vuoto: prima di disegnare figure esatte occorre squadrare il foglio ossia, in questo caso, dare un senso alle parole.
Ad esempio:
1) uno studente è meritevole in quanto portatore di un patrimonio di qualità? E quali?
2) chi è meritevole riesce ad esserlo in ogni tipo di scuola, in ogni disciplina e con ogni insegnante del suo corso di studi?
3) il merito coincide con il successo scolastico?
4) dove individuiamo il merito nel processo educativo che prevede almeno due attori o, se vogliamo, due funzioni: quella di insegnare e trasmettere (dunque attrarre attenzione/interesse) e quella di apprendere ossia ricevere (e rielaborare)? Può esistere da una parte sola? Come e quando è diversificabile?
Questo breve elenco è imperfetto, abbozzato e parziale. 

Sono tante le variabili che potremmo osservare.

Ma poi esiste la pratica. Molti bravi insegnanti (1) si muovono, di solito, con la prudenza ma anche con l’audacia di bravi esploratori che sanno quale sia la meta, rileggono e tarano giorno per giorno gli strumenti, ne inventano di nuovi, si confrontano con la realtà, raccolgono esperienze.

Una base di una ricerca volta a confutare gli errori del passato e a cercare nuove e migliori strade per il futuro dovrebbe tener conto degli ultimi quattro secoli di ricerche ed esperienze pedagogiche. Ma non volendo essere pedanti possiamo almeno desiderare che chi si proponga con responsabilità direttive in questo ambito evitati scivoloni o errori di stile e contenuto tenendo presente almeno gli studi dal positivismo pedagogico ad oggi, poco più di centocinquant’anni, fondamentali.
E il merito allora? Certamente; quello della medaglia di primo della classe ci commuove ancora, perché no?
Tuttavia non sono quelle le sole lacrime che la scuola può far versare.
Il merito ci piacerebbe, ci piace: come insegnante anche a me sarebbe piaciuto esser considerata meritevole, ne avevo anche qualche titoluccio, e la vanità fa il suo lavoro. Ammettiamo tuttavia che non si insegna per sentirsi bravi, caso mai per sentirsi utili. Lo stesso desiderio di utilità non ci piacerebbe anche tra le doti ed i meriti di bravi ministri miur?
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(1) Sull'argomento può esser utile il resoconto di una discussione svoltasi nell'ambito del network La scuola che funziona fondata da Giovanni Marconato: "Il bravo prof"

venerdì 27 dicembre 2013

Pinocchio e le metamorfosi istruttive

di Mariaserena Peterlin 
(testo già pubblicato in Vivalascuola de La poesia e lo spirito)


Leggi il Manifesto di Pinocchio
Tra grottesche realtà, metamorfosi e rivoluzionarie invenzioni narrative, Pinocchio diventerà da burattino un ragazzino perbene, uno di quelli che “hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche nell’interno delle loro famiglie” (cap. 36), ma non nasce buono, infatti da subito disobbedisce ed infrange le comuni regole di buona creanza e di buona educazione e prestissimo incorre in castighi ed umiliazioni, nei rigori della legge e nella prigionia. In realtà Pinocchio disobbedisce rispetto alle comuni leggi dettate dall’omologazione, dalle convenienze, dalle usanze e convenzioni della società umana che lui, essendo nato burattino, non è portato a condividere naturalmente.
Come ha osservato Vincenzo Cerami quello di Pinocchio è un “lungo viaggio dal buio prenatale alla luce: la dolorosa catarsi che lo porterà verso la cruda realtà” (cfr: Collodi, Le avventure di Pinocchio, edizione illustrata, Milano 2002, Garzanti, Prefazione di Vincenzo Cerami pag. XXVI). Per raggiungere quella luce è necessario che il protagonista compia un lungo cammino di iniziazione segnato da progressive metamorfosi fino a quella finale in cui diventa “un bel fanciullo con i capelli castagni e gli occhi celesti” .
Sappiamo come il suo itinerario, funestato da inseguimenti e gravi pericoli, sia spesso fatto di corse, giravolte, capriole, mutamenti di direzione.
Un cammino avventuroso, dunque, in cui non mancano corrispondenze tra gli stati d’animo e le varie ambientazioni anche notturne come l’inseguimento degli assassini o il viaggio verso il paese dei balocchi.
L’autore fa crescere il suo burattino attraverso frenetiche esperienze durante le quali la sua originale natura ligneasperimenta quanto la realtà umana sia illusoria, variabile e spesso frutto di scambi o cambi di identità.
Collodi, che come noto fu anche autore di teatro, non trascura d’usare l’effetto fascinoso dei colpi di scena né manca di marcare con figure, metafore, simboli e contesti sia gli stati d’animo del protagonista, sia lo scorrere del tempo e dei luoghi che incorniciano le azioni.
Proponiamo qui una brevissima lettura, esemplificatrice di questa tesi, di poche citazioni tolte dai capitoli tra 19-23 e che risultano esemplari dei frenetici capovolgimenti di situazione o inversioni di ruoli. Grazie anche alla brillante e trascinante prosa collodiana questi brani danno conto dell’esperienza dolorosa del burattino Pinocchio in viaggio verso la vita reale.
L’intestazione del diciannovesimo del capitolo narra:Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro e, per gastigo si busca quattro mesi di prigione. Siamo nel paese di Acchiappacitrulli dove il nostro, condannato nonostante sia parte lesa, usufruisce di una sorta di amnistia, ma ottiene la libertà, così come la condanna, per dir così, quando rovescia la realtà, ossia quando capisce che non si è puniti per essere davvero colpevoli e bugiardi, ma al contrario quando si è innocenti e si dice la verità:
— Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io — disse Pinocchio al carceriere.
— Voi no, — rispose il carceriere — perché voi non siete del bel numero….
— Domando scusa; — replicò Pinocchio — sono un malandrino anch’io.
— In questo caso avete mille ragioni, — disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare.
Uscito di prigione affronta un’altra prova e la supera in modo grottesco o potremmo anche dire, grazie a una inversione di comportamenti: un serpente gli sbarra la strada, Pinocchio ne è terrorizzato, si getta all’indietro per sfuggirlo e cade per terra restando conficcato nel fango a gambe all’aria, ma è il serpente che muore per “una convulsione di risa” vedendolo sgambettare in quella ridicola posizione. E qui il burattino impara che non si muore per la paura, ma si può morire per il piacere di ridere. Riparte e corre, corre “per arrivare a casa della Fata avanti che si facesse buio”, ma preso dalla fame tenta di sgraffignare un grappolo d’uva finendo intrappolato in una tagliola messa da un contadino a difesa del suo campo (vorrebbe dunque rubare, ma è lui ad essere rubato).
Inizia qui per Pinocchio una singolare notte degli scambi in cui si mescolano realtà grottesche, imbrogli, inversioni, rovesciamenti e capriole narrative.
Il contadino che ha catturato Pinocchio gli mette al collo un grosso collare e gli impone di far da guardia ai ladri dei polli in sostituzione del suo cane, Melampo, che è morto: “puoi andare a cuccia in quel casotto di legno, dove c’è sempre la paglia che ha servito di letto per quattr’anni al mio povero cane”.
Pinocchio mortificato si adatta al ruolo dicendosi d’aver meritato il castigo; s’addormenta nel casotto dove invece del letto con le lenzuola di bucato c’è un po’ di paglia vecchia e sporca. Arrivano le faine, le ladre dei polli che, al buio della notte, scambiano Pinocchio per il cane Melampo: da collaudate delinquenti, instaurano una immediata trattativa, di gusto mafioso; una vera e propria mossa di corruzione. Qui si sovrappongono la notte degli scambi e quella degli imbrogli: “Noi verremo una volta la settimana, come per il passato, a visitare di notte questo pollaio e porteremo via otto galline. Di queste galline, sette le mangeremo noi, e una la daremo a te, a condizione, s’intende bene, che tu faccia finta di dormire e non ti venga mai l’estro di abbaiare e di svegliare il contadino.
Pinocchio finge di accettare, ma non appena le faine si infilano nel pollaio le chiude dentro fissando la porta con una grossa pietra. Il contadino, avvisato, arriva e acchiappa le faine, poi le chiude in un sacco e da quel galantuomo qual è predispone una singolare trovata “Potrei punirvi, ma sì vil non sono! Mi contenterò, invece, di portarvi domani all’oste del vicino paese, il quale vi spellerà e vi cucinerà a uso lepre dolce e forte. È un onore che non vi meritate, ma gli uomini generosi come me non badano a queste piccolezze!”
Già, quale sistema migliore di farsi giustizia che mettere in atto un altro imbroglio, ossia una frode?
Pinocchio impara, ma anche se ha patito, come un classico limpido eroe, immeritate pene, umiliazioni durissime e sordidi tentativi di corruzione non svela, da mite pur se discolo, le colpe pregresse di Melampo: “… avrebbe potuto, cioè, raccontare i patti vergognosi che passavano tra il cane e le faine; ma ricordandosi che il cane era morto, pensò subito dentro di sè: — A che serve accusare i morti?… I morti son morti, e la miglior cosa che si possa fare è quella di lasciarli in pace!
Questi sono alcuni dei tanti possibili esempi della singolare educazione ricevuta da Pinocchio; spesso egli mostra un’anima pietosa contenuta in un pezzo di legno, ma la vita e gli umani si affretteranno a limare e piallare, a tornire e rifinire quel legno fino a fargli dire: “com’ero buffo quando ero burattino! E come son contento di essere diventato un ragazzino perbene!

venerdì 20 dicembre 2013

La classe docente andrà in paradiso?

una vita, la mia, nella scuola
Forse la domanda dovrebbe essere un’altra: la classe docente esiste dal punto di vista sociale ed ha una identità riconosciuta, per dir così, pubblica oltre che professionale?
Se ce l’ha ed ha una sua specificità questa probabilmente è pluralista senza tendere all’individualismo, complessa senza essere inespugnabile, specifica senza essere corporativa, specializzata senza essere escludente.
I docenti non sono forse per peso, numero e peculiarità una parte significativa della società? Penso di sì.
È sufficiente fare una veloce stima dei gruppi di docenti esistenti nel web per constatare che questa identità esiste davvero e quanto sia viva e consapevole di esserlo.
La classe docente si occupa di istruzione, di formazione, di educazione; può dare un’impronta all’orientamento dei giovani verso il futuro, al loro modo di socializzare, considerare e rapportarsi agli altri; può indurre i ragazzi a riflettere, fin dall’adolescenza e anche prima, su quale sia il mondo in cui vorrebbero vivere: sono tutte questioni pesanti che danno prestigio al ruolo.
Infatti la politica si ricorda dei docenti, ma non quando potrebbe o dovrebbe ragionare sulle retribuzioni, sulle funzioni, sulla valorizzazione e aggiornamento degli insegnanti: se ne ricorda, semmai, quando cerca voti e consensi.
Tutti i politici se ne ricordano allora, come no.
Alle elezioni, alle primarie, a qualche referendum,  ai congressi, in occasioni pubbliche allora si parla sempre di scuola, di insegnanti e perfino de “i nostri ragazzi” che ho virgolettato perché non se ne può più.
Non se ne ricordano, e lo sappiamo, quando le scuole cascano a pezzi, quando mancano strumenti aggiornati, quando le classi sono affollate. Non se ne ricordano nemmeno quando qualche docente sbaglia, non si aggiorna, non è all’altezza.Laissez faire, laissez passer (lasciar correre, ignorare) è, in questi casi, la linea di condotta. Certo nessuno è perfetto, ma sappiamo bene come, per certe professioni, i danni siano come l’inquinamento ambientale sparso nelle nostre città: si diffonde, si appiccica, non fa passare aria buona ed è difficile da rimuovere.
Dunque, ipotizzo, dev’esser per colpa dei docenti non adeguati che tutta la classe docente è sovente mal pagata oppure pagata a sorteggio; ossia quando danaro ce n’è e se non ce n’è s’aspetta il turno.
Certo, ci sono anche i docenti che vivono la scuola in realtà di nicchia, quelli di scuole ben frequentate, chissà in qualche liceo per bene dove quasi tutto funziona come un orologio incorniciato da una realtà poco problematica.
Dev’esser per questo che qualche opinionista o giornalista, e anche il solito politico rampante o ansimante pensa che basti fare un fischio per veder correre donne e uomini insegnanti all’allettante richiamo. Hanno tanto tempo libero, possono fare, possono esserci, possono pure fare reclutamento adesioni!
Ci sono, è vero, anche i docenti che fanno parte per se stessi, che custodiscono gelosamente il loro status quo, considerano il precariato dei colleghi una sfortuna degli altrui che non li tocca, difendono il loro particolare e risparmiano energie aspettando la pensione quando verrà; ma i lavativi non ci sono forse in tutte le categorie: anche negli ospedali ad esempio e anche in politica?
Eppure io voglio davvero bene agli insegnanti e mi dispiace che, nonostante valide eccezioni assolutamente encomiabili, la classe docente (la categoria docente) sembri non volare: a volte rivendica eventuali diritti borbottando e non impegnandosi, altre volte si inacidisce sulla mancanza di sostegni e supporti che, tuttavia, sono (o dovrebbero) indispensabili allo studente, non al prof.
Ecco perché mi chiedo: esiste davvero una classe insegnante, o gli insegnanti sono come tutti gli altri?
Esiste e ha capito che può/deve avere un ruolo o pensa che andare al voto da docenti o da persone diversamente attente e consapevoli sia la stessa cosa? Esiste, è viva, si sa indignare, sa dire la sua quando serve o ha mollato?
Esiste e vuole un prossimo futuro in cui essere propositiva o ha messo in barca remi e timone e va alla deriva?
E con la deriva andrà in paradiso? Forse no.

lunedì 30 settembre 2013

Lettera aperta DI / A una professoressa sulla poesia

Scrivo questa lettera rivolgendomi ad una mia amica e collega, Anna Maria Curci, ma essendo una lettera aperta queste riflessioni sono rivolte a tutti.


Cara Anna Maria,
ti scrivo per parlarti di poesia perché entrambe, insieme a tanti altri insegnanti, non solo la amiamo, ma cerchiamo da sempre, senza violenza né pratiche di didattica estrema di trasmetterne l’amore.
Iniziando questa lettera, sulla poesia, mi accorgo di aver usato il verbo amare e la parola amore con una frequenza che solo la poesia poteva ispirare, ma è necessario che subito, al contempo, io difenda la poesia sia dai sentimentalismi, sia dalla tracimazione degli stessi.
In realtà la poesia d’amore rischia di essere sia di quel genere innocuo, di cui hai tu parlato, sia uno sfogo banalizzante di sentimenti precocemente nati e finiti.
Ma tornando al tema: come negare che, seppure apparteniamo a generazioni un po’ diverse, entrambe siamo state formate ad un approccio rigoroso alla letteratura, che abbiamo decantato il rigore raffinandolo ulteriormente attraverso il filtro, a volte fittissimo, degli studi strutturalisti o dell’esegesi semantica e della semiotica, che abbiamo sperimentato le letture di diversi critici diversamente orientati ma siamo felicemente sopravvissute amando questa forma di scrittura che non può non essere che letteraria?
Intendiamoci, non nego la possibilità che la poesia nasca spontanea da un cuore primigenio o persino illetterato; non nego nemmeno che abbia diritto di cittadinanza nel paese della libera espressione attraverso parole anche una poesia semplice, o vogliamo dirla innocua? disimpegnata o perfino autoreferenziale.
E tuttavia come sottrarsi a quella punzonatura dell’essere docenti e di aver sentito e di sentire la responsabilità di insegnare prima di tutto la distinzione tra i generi.
E come sottrarsi all'ammissione di colpevolezza: sì insegno quello che amo, le mie predilezioni non le voglio nascondere e uso arte e mestiere per trasmetterle?
Eppure nemmeno noi, così oserei dire radicalmente prof, siamo nate insegnanti. E anche noi siamo nate alla poesia ascoltandola,leggendola, lasciandoci trascinare dalla sua musica. Mi accorgo che scrivo noi,forse devo dir io? Ma sorvoliamo come si sorvola su un dettaglio.
Ho amato la poesia per la musica e le sensazioni che riusciva a far nascere, e ripeto a far nascere e non semplicemente a trasmettere. Ho amato (e di nuovo questo verbo!) la poesia proprio perché rappresenta  una forma ulteriore di scrittura,  che va oltre l’espressione spontanea, descrittiva, emotiva, referenziale o narrativa per andare ad una sintesi, ad un grumo di sensi e sentire, ad un coagulo di passioni e pensieri, ad un aggregarsi di cellule fatte di segni, ma che diventano vita e rigenerano.
Compravo gli Oscar Mondadori collezionando libro su libro tutti i poeti pubblicati: alcuni ancora, per me sconosciuti. Come sai erano libri economici e senza note ma a me, studentessa, non importava di capire tutto perché avevo la sensazione che non fosse necessario l’approccio totale, immediato, esauriente; o anche potrei dire filologico.
Leggevo voracemente, tutto di seguito afferrando il testo, segnandone alcune parti, interrogandomi su altre e, pur iscritta a Lettere, senza assolutamente immaginarmi in cattedra intenta a spiegare la poesia.
Questo forse troppo lungo discorso, cara Anna Maria,non ti sgomenti; la conclusione, penso, sarà più breve delle premesse.
Si parlava di poesia innocua, di quella di cui son pieni blog e social network, giornali_ni e anche inspiegabili premi letterari.
Da convinta democratica a tutto tondo non nego il diritto di esprimersi anche andando a capo e chiamando poesia ciò che si scrive. Si dia pur voce al sentimento, al sentimentalismo, ai singulti, alla passione così come viene. Lo scrivere è pratica libera e tale dovrebbe rimanere. Devo ammettere che, pur con perplessità, ritengo ammissibili anche circoli (virtuali o reali) in cui ci si loda reciprocamente per le modeste o modestissime performance pubblicate soprattutto in rete complice la semplicità dell’aprire un blog. Basta girarne al largo.
Vorrei tuttavia distinguere tra una pratica di scrittura, dalle infinite gradazioni e gamme, che probabilmente è sempre esistita e di cui esistono gustose espressioni anche in opere liriche (ricordi sicuramente il tutore di Rosina, nel Barbiere rossiniano, che declama : “quando mi sei vicina/ amabile Rosina / il cuor mi brilla in petto / mi balla il minuetto”), dalla poesia.
Possiamo discutere se la poesia richieda metrica e rima, se e quanto sia importante la sperimentazione, se la sua lettura possa esser spontanea o educata, se sia vitale (io penso di no) l’apprezzamento della critica; ma possiamo anche mettere in discussione che, considerata la nostra tradizione letteraria, non solo italiana ovviamente, la poesia debba essere presa sul serio dal lettore e maneggiata con giudizio da chi si vuol attribuire il nome di poeta o poetessa?
Dico francamente che la mia democrazia finisce dove inizia l’arbitrio altrui. Il piacimento è una cosa, il piacersi è altra cosa.
Credo anche che se tanti autori si sono imposti la ricerca del suono attraverso la metrica e la rima sia necessario considerare l’arte poetica anche come una disciplina prima di tutto verso se stessi. Penso che si possa discutere di preferenze personali; ma se noi oggi, piccoli contemporanei,possiamo permetterci in tranquillità di dire che preferiamo Dante a Petrarca o Montale ad Ungaretti, allora possiamo anche dire che una quartina dell’Angiolieri o dieci righe stralunate di Dino Campana (cito gli autori italiani che amo per obbligo  di scuderia) valgono da soli milioni di righe apparecchiate in rete per palati affamati, ma non troppo garbati.
Presunzione di aristocrazia letteraria? L’aristocrazia qui non c’entra: c’entra lo studio, la fatica, l’umiltà da cui autori grandissimi si son lasciati impregnare prima di distillare parole.
Io stessa, e questo scritto è anche il mio auto da fé, amo scrivere ma prudentemente mi considero una che scrive versi solo perché va a capo con le frasi seguendo il suo ritmo personale. E infatti sto raccogliendo le mie carabattole scritte con questo titolo. “Andando a capo”. E non pretendo lettori.
I nostri ragazzi, è a loro che noi pensiamo, amano  spontaneamente la poesia anche se spesso si proteggono dalle lezioni di letteratura con la corazza della felice e spontanea insolenza dell’adolescente  che cerca se stesso. Ebbene io penso che la amino proprio perché al di là, o  prima, delle possibile griglie di analisi del testo, percepiscono e colgono l’anima  pura della poesia. Quella che non si macchia della belletta negra, quella che può trattare qualunque argomento, quella  di cui, oggi come ieri, non possiamo fare a meno. Quella che ha raggiunto il bello stile vagliando e vagliandosi.
E per ultimo vorrei anche dire che, per quanto ci possa dispiacere questa non è un’epoca peggiore di altre, anzi. Forse molti scambiano il male di vivere con il male di non saper essere. Ma questo è tutt’altro discorso.
Come sempre scrivo di getto, come sempre ho fretta di spedire. E ti mando, insieme alle parole, le rose disegnate dal mio Francesco Maggi, Nadagemini, ovviamente ex-alunno anche se odio la particella ex.
Con affetto
Maria Serena